Grande mostra di Alberto Burri alla Fondazione Ferrero di Alba

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ALLA FONDAZIONE FERRERO DI ALBA SONO ESPOSTE QUASI 50 OPERE DEL MAESTRO DI CITTÀ DI CASTELLO. UNA MOSTRA CHE PERMETTE DI ANALIZZARE L’INTERO PERCORSO CREATIVO E POETICO DI ALBERTO BURRI.

Un linguaggio materico, e poetico, quello di Alberto Burri (Città di Castello, 1915 ‒ Nizza, 1995), che con la sua arte alchemica ‒ una post-pittura che ne prende volitivamente le redini ‒ smonta la realtà e la ricostruisce nuova, diversa. La materia dei catrami, dei sacchi, della plastica e del metallo viene plasmata da Burri, che tra tele estroflesse, vinavil e combustioni ricrea una grammatica dell’informale pervasa da un onnipresente equilibrio compositivo.
La sezione aurea è infatti la Bibbia di Burri, come si vede nel Grande Bianco del 1952, che pur esulando dal linguaggio pittorico non ne può (né vuole) dimenticare le regole non scritte. Lasciato il realismo al cinema e alla fotografia, il poeta-artista filtra il mondo attraverso un processo entropico e radicale che sfrutta materiali poveri, aspri e spesso di scarto, come i sacchi di iuta, gli impiallacciamenti di legno e il cellotex insonorizzante, trasfigurati con il calore e il colore, con cuciture a nudo e dolorose saldature. Lacera e fonde e scartavetra e pinza: per Burri la fiamma ossidrica e i materiali d’avanguardia sono il nuovo corredo d’artista, e ciò che conta è “essere per significare, esistere per esprimere”, come lui stesso diceva.

Alberto Burri, Rosso, 1952 © Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Città di Castello © by SIAE 2021

LA MOSTRA ALLA FONDAZIONE FERRERO

Il percorso espositivo è in realtà diviso in due sezioni: una, il grosso della mostra, alla Fondazione Ferrero, e l’altra alla Banca d’Alba, che racchiude in sé la storia del Grande Cretto di Gibellina. Alla Fondazione, dalla prima tela texana realizzata durante l’internamento in un campo di concentramento americano ai monocromi purissimi con inserti dorati, tutto il pensare e l’agire di Burri si dipanano come una storia ben scritta. Se in quella prima pittura (qui esposta in una delle sue rare comparse) è ancora figurativo, privo di una scuola pittorica classica, poco dopo abbandona il linguaggio mimetico e metaforico e nasce come pittore dell’astrazione: è del 1948 Assemblage SZ1, olio e sacco su tela, estratto da un sacchetto di zucchero del piano Marshall. Da lì in poi ci sono i catrami, quelle che Burri chiama muffe (misture di materiali) e l’approdo ai sacchi: “A Burri interessa presentare il vissuto della realtà nella sua fisicità. In ogni cosa, è guidato verso l’equilibrio, la capacità di soppesare gli elementi compositivi”, spiega il curatore Bruno Corà, presidente di Palazzo Albizzini Collezione Burri. Questi elementi, che sembrano oggetti, per Burri restano pittura, in un afflato estremo delle istanze dadaiste: “La materia è sfida, vuole creare stupore e dimostrare che delle cose senza valore apparente possono raggiungere la preziosità dell’opera d’arte”, dice il curatore. Appena qualcuno lo definì “pittore dei sacchi”, Burri passò ad altro con l’aiuto del fuoco e della plastica ‒ non senza scalpore: dalle sue opere gemmano persino delle inchieste parlamentari. Come ricordato dal presidente della Fondazione, Bartolomeo Salomone, il percorso della rassegna è ultra ventennale (dal 1945 al 1993) e la visione sull’artista raramente è stata mostrata in modo così completo: 8 sale cronologiche/tematiche e 45 opere sono gli strumenti per capire il suo percorso in costante evoluzione, e soprattutto il suo linguaggio materico, che fonda una metrica poetica nuova: “Burri ha introdotto un nuovo linguaggio nell’arte contemporanea, segnando la seconda metà del ventesimo secolo, e il suo riflesso linguistico ancora si proietta sulle generazioni successive”, dice Corà.

Alberto Burri. Photo © Aurelio Amendola

IL SODALIZIO POETICO TRA BURRI E VILLA

Burri non amava parlare del suo lavoro e riteneva fosse impossibile descriverlo e spiegarlo, per questo aveva diffidenza del mondo accademico e dei critici”, racconta ancora il curatore. “Si è invece unito alla compagnia dei poeti dell’immediato dopoguerra romano, dove approdò dopo la prigionia americana, come De Libero e Sinisgalli. Arrivano poi voci più autorevoli nella sua opera, sopra tutti Emilio Villa, personaggio fuori dal coro e coltissimo ‒ era filologo, etimologo e traduttore di bibbie aramaiche ed ebraiche e dell’Odissea greca”. Villa, spiega Corà, ha collegato Burri alla poesia, e insieme si giustificavano a vicenda nelle loro forme più radicali: “Erano compagni di avventura: per ogni copia delle 17 variazioni di Villa, circa una sessantina, Burri ha fatto due opere uniche. Oggi sarebbe impensabile”. È proprio Villa a riconoscere nell’amico una modalità creativa poetica, perché dipinge per elementi essenziali, con timbri e pause. Ospite imprevisto dell’inaugurazione, il poeta candidato ai Nobel Guido Oldani, fondatore del Movimento Realismo Terminale: “Questa rassegna ci conforta molto, a noi realisti terminali. Con il terzo millennio la maggior parte delle persone si accatasta nelle metropoli e mentre prima gli aerei erano visti come metafora dei gabbiani ora è vero il contrario. Gli oggetti sono un alfabeto con cui ridisegniamo il mondo da capo, e in questo Burri ci ridà la materia legata alla natura regalandoci delle essenzialità. Se Ungaretti gli invidiava d’essere il migliore poeta, io gli invidio di essere arrivato per tempo per spiazzarli, i poeti”.

Alberto Burri, Grande Cretto di Gibellina, 1985-2015

IL GRANDE CRETTO DI GIBELLINA

La seconda parte dell’esposizione è dedicata alla ricostruzione e documentazione della più grande opera di Land Art di Burri (che pure si era cimentato in pezzi grandi come il Teatro Continuo nel Parco Sempione di Milano), nonché più grande d’Europa: il Grande Cretto di Gibellina. Quando all’inizio degli Anni Ottanta il sindaco della città sicula di Gibellina, Ludovico Corrao, invitò Burri tra altri artisti per onorare il territorio colpito dal terremoto del Belice del 1968, lui toccò con mano il dramma della mancata ricostruzione ed elaborò un progetto.
Un sudario, bianco, che si posasse sulle macerie inglobandole: sarebbe stato uno dei suoi Cretti, ma grande migliaia di metri e alto un metro e sessanta. Il progetto viene subito approvato e la costruzione monumentale inizia nel 1985: decine di migliaia di metri quadrati (86mila) di cemento bianco (non dipinto) si mangiarono le rovine di Gibellina, con percorsi che seguivano le antiche strade della città distrutta. Rimasto incompiuto nel 1989 per un cambio nella politica cittadina, nel 2015 è stato completato per il centenario dalla nascita. Oggi il Cretto è un’opera d’arte, un memento mori e un monumento sacro, che però il suo autore non vide mai completo.

‒ Giulia Giaume

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