Si va a congresso ma sì o no a Conte divide
(Adnkronos) – Prima della conferenza stampa stamattina Enrico Letta ha incontrato lo stato maggiore Pd. Una riunione in cui “non sono volati coltelli, né ci sono state porte sbattute o recriminazioni”, dicono quasi con un certo stupore dal Nazareno. Piuttosto la consapevolezza unanime della necessità di mettere in campo un nuovo Pd. La valutazione comune è stata quella intanto di accelerare i tempi del Congresso. A novembre ci sarà un’assemblea nazionale per far partire il percorso che, comunque viste le regole dem, sarà lungo e non finirà prima della primavera prossima.
E poi c’è stata anche una riflessione su come arrivarci al congresso e, a quanto si riferisce, diversi big dem – a partire da Dario Franceschini e Lorenzo Guerini – avrebbero chiesto a Letta di restare per accompagnare il Pd “in un percorso ordinato”. Letta, dicono i suoi, non ha insistito per restare. Anzi alcuni dei fedelissimi gli avrebbero suggerito di lasciare subito. Ma nel segretario è prevalso il senso di responsabilità, di non lasciare il Pd in mezzo al guado. Sarà quindi il ‘traghettatore’ verso un congresso di “profonda riflessione”, come ha detto in conferenza stampa.
Perché la domanda che al momento corre maggiormente in un Pd sotto botta per la sconfitta è ‘va bene il congresso, ma per fare cosa?’. Tornare al dialogo con i 5 Stelle, come vorrebbero Francesco Boccia o Michele Emiliano, oppure no? Dopo quanto è accaduto, Conte può tornare ad essere considerato un interlocutore affidabile? “Se siamo arrivati a questo è per la caduta del governo Draghi voluta da Conte”, ha detto anche oggi Letta. Una valutazione condivisa da Base Riformista. “Conte aveva iniziato a smarcarsi dall’elezione del presidente della Repubblica e da lì ha continuato… i matrimoni si fanno in due”, dice un big dell’area Guerini. Quanto a Carlo Calenda: “Ha retto 24 ore e poi ha stracciato l’accordo con il Pd sotto la ‘pressione’ di Twitter… Ora che ci fa col 7,5%? Fa tornare Draghi?”.
I tempi non stretti del congresso Pd serviranno, o almeno dovrebbero servire a chiarire le idee tra i dem e quindi alla costruzione delle candidature. Quella di Stefano Bonaccini, ad esempio, di cui si parla già ma che non ci sarà se sarà ‘soltanto’ il candidato di Base Riformista. Quella dell”astro nascente’ Elly Schlein, magari. L”anti Giorgia’ che piace molto a Letta e che il segretario ha valorizzato in campagna elettorale.
Chi ha un piede sull’acceleratore sembra invece il ‘partito dei sindaci’. Oggi un lungo post su Facebook di un Antonio Decaro quasi ‘rottamatore’: “È l’intero modello su cui il Pd si fonda che va smantellato. Basta con i capi corrente che fanno e disfano le liste a propria immagine e somiglianza. Basta con questo esercizio del potere per il potere. O saremo capaci, finalmente, di azzerare questi meccanismi perversi e di ritornare a parlare alle persone o la sconfitta perpetua alle elezioni politiche sarà il nostro ineluttabile destino”.
Ma ai blocchi di partenza potrebbe esserci anche un altro sindaco, quello di Pesaro, Matteo Ricci, che guida una maggioranza in giunta di centrosinistra con i 5 Stelle. Sul coordinatore dei primi cittadini Pd sarebbe in atto “un pressing di numerosi amministratori locali perché scenda in campo. E il sindaco di Pesaro, si riferisce all’Adnkronos, non esclude la disponibilità che stavolta sia della partita. Dice Ricci: “Non si può che ripartire dai sindaci progressisti e riformisti, dalla sinistra di prossimità. I Comuni sono l’unico livello istituzionale dove governiamo, con il 70% dei sindaci di centrosinistra”.