Tra il 1935 e il 1939 Frank Lloyd Wright edificò in Pennsylvania, ed in particolare nella zona dei monti Appalachi, la Casa sulla Cascata (Fallingwater) per un intelligente proprietario locale, Edgar J. Kaufmann. Il dato più significativo che salta subito agli occhi, anche a distanza di quasi un secolo, è che la casa impegna con l’ambiente circostante un rapporto particolare. Infatti, da un lato si integra nella natura (col riusarne i quattro elementi di base, l’acqua della cascata e del torrente Bear Run, la roccia e quindi la terra, l’aria della collina, il sole degli indiani d’America, non sono disponibili o sono molto rare immagini notturne della casa); dall’altro se ne distacca con la sua forma avveniristica pulita razionalistica, composta da superfici piane e chiare, che si dislocano in orizzontale, differenziandosi dalle tonalità più cariche della vegetazione circostante…
Da un certo punto di vista FLW avrebbe dovuto ‘integrare’, cioè mimetizzare, la casa nell’ambiente e nella storia del luogo.
Il risultato sarebbe stato una finta caverna, o peggio ancora un finto bungalow, in ogni caso un brano architettonico ‘vernacolare’. Da questo punto di vista, la scelta di FLW è stata ineccepibile, direi anzi brillante: il paesaggio è tanto caratterizzato che non ha senso tentare di imitarlo esteriormente.
L’introduzione e la divulgazione della nozione di dialetto architettonico opposta a quella di vernacolo è merito di Bruno Zevi.
Insomma, esiste un’arte ‘periferica’, spesso attardata e soprattutto in debito con i modelli ‘alti’, ma autentica e popolare, che non ha nulla a che vedere con la caricatura, lo stereotipo e la finzione della pratica commerciale (e del linguaggio pubblicitario).
È in quest’area ‘grigia’, ricca sovente di inaspettati tesori che si colloca la produzione del pittore Giuseppe De Mattia.
Giuseppe De Mattia (o Demattia) nasce a Noicattaro il 27 giugno 1803. Compie i primi studi nei seminari di Molfetta e Bari. Dopo gli studi di giurisprudenza, conclusi a Napoli nel 1928, si iscrive all’Accademia Artistica di Napoli. Si trasferisce quindi a Roma, dove frequenta la scuola di Vincenzo Camuccini (Roma, 1771-1844), esponente di spicco di quella corrente minoritaria del neoclassicismo europeo che sfocerà nel primo romanticismo, e inoltre dal 1826 al vertice dell’Accademia Romana. È in questa scuola, prestigiosissima, che De Mattia conosce, tra gli altri, il conterraneo Michele De Napoli (Terlizzi, 1808-1892).
Nel 1840 lo ritroviamo a Noicattaro, dove è tornato per stabilirvisi. Sempre in quell’anno, vi sposa infatti la nobile Rachele Falangola, conosciuta a Napoli. La coppia ha sei figli. Muore a Noicattaro il 12 novembre 1895, il giorno successivo a quello della morte della moglie.
Un centinaio le tele attribuibili al «De Mattia», quindici trafugate tra il 1960 e il 1970 nella sua villa di Torre a Mare e altre corrose dall’umidità. Cinquanta circa sono le tele rimaste «a tutt’oggi [ottobre 1994]», di cui 15 sono esposte nelle chiese, le altre conservate dagli eredi: di quelle esposte nelle chiese dieci sono a Noicattaro, ossia sei nella Madonna della Lama, una nei Cappuccini, una nell’Annunziata, un’altra ancora nella chiesa del Carmine, ed una infine nella sagrestia della chiesa madre. Fuori Noicattaro se ne trovano altre quattro o forse cinque. Due tele sono a Bisceglie (chiesa di Sant’Agostino), una a Turi (chiesa matrice), una a Capurso (Basilica della Madonna del Pozzo, sagrestia). Un’altra (Deposizione, «firmata e datata 1852») risulta trafugata l’11 luglio 1992 nella cappella La Madonnella di Adelfia Montrone. Mentre a Bari (palazzo vescovile) esiste una grande tela con gli stemmi arcivescovili baresi, attribuita da Roppo, a «Demattia».
Di seguito, e in dettaglio, le tele esposte nelle chiese noiane: Angelo custode, 1865, Sacra Famiglia, 1866, San Filippo Neri, 1862; San Michele Arcangelo, Martirio di Sant’Agata, 1839; Deposizione, 1854 (Madonna della Lama, navate dx e sx, prima → terza campata: tutte le tele misurano 200 per 280 cm). Nella chiesa di san Francesco ovvero dei Cappuccini, prima arcata del lato dx, abbiamo Arcangelo Raffaele e Tobiolo, 1837 a devozione del padre del pittore. Nella chiesa dell’Annunziata (con la chiesa del Carmine, tra le più belle della provincia, d’un barocco aggraziato e scintillante) notevole è la pala d’altare, firmata e datata 1860. La sagrestia della chiesa matrice, sempre di Noicattaro, custodisce il ritratto di mons. Michele Basilio Clari, arcivescovo di Bari dal 1823 al 1858. Il quadro, poi fatto restaurare da don Oronzo Pascazio, è firmato e datato: «Giuseppe Demattia f. [= fecit] 1844». Si deve aggiungere la tela delle Anime del purgatorio della chiesa del Carmine di Noicattaro. Sul retro compare questa scritta: «A devozione della popolazione nojana Liberazione dalla peste di Noja 1816 pittore Giuseppe De Mattia Restaurato M. Pittore Vito Laudadio 1974». Il quadro è diviso in tre parti: in alto vediamo le tre persone della Trinità, in basso sei anime purganti, «alcune con lo scapolare della Madonna del Carmine, e tutte con lo sguardo rivolto in alto, e nella parte centrale tre Angeli: uno versa un po’ d’acqua refrigerante, il secondo solleva un defunto, il terzo con le mani invita a guardare il cielo .
Ed ecco le opere di De Mattia reperibili fuori Noicattaro. Bisceglie, in Sant’Agostino, ne custodisce due: intanto, la Madonna della cintura con i SS. Agostino e Monica, olio su tela, 210 per 315 cm, firmata e datata nell’angolo in basso a sx «Giuseppe Demattia da Noja fece 1849» (notizia, rileva Stangarone, di p. Celestino Giannelli, che giudica la tela di «valore artistico mediocre», salvando in parte la «composizione» e la stesura cromatica, p. 24). Inoltre sull’altare a sx dell’ingresso è collocata la Madonna del Buon Consiglio, olio su tela di 210 per 315 cm firmato e datato nell’angolo in basso a sx «Giuseppe Demattia da Noja (fece) 1849», (anche questo dipinto appare di «valore artistico mediocre», perchéla «composizione [è] troppo elementare», l’artista si rivela«discreto disegnatore, ma fiacco colorista»). Il ritratto di un religioso, Egidio da S. Giuseppe («esimio per pietà, per carità verso i poveri, per i miracoli e il dono della profezia»), eseguito da De Mattia nel 1841, campeggia a sinistra dell’altare maggiore dell’antica cappella della Madonna del Pozzo di Capurso. A Turi, invece, nella chiesa matrice, cappella del SS., è allogata la Cena in Emmaus, firmata e datata 1849 con l’aggiunta dell’espressione «Scuola romana». Il tema, secondo Roppo, è stato suggerito dal Mucedola. Don Vito Ingellis giudica l’opera alquanto «fredda». Nella chiesetta della Madonnella, ad Adelfia Montrone, vi era una Deposizione, rubata nella notte tra il 10 e l’11 luglio 1992, identica anche nel formato (280 per 200 cm) a quella di Noicattaro. In entrambe compare Nicodemo.
Gli eredi conservano dipinti religiosi e profani. Tra i primi: Ecce Homo, Mater dolorosa, Madonna con Bambino Benedicente, Mater Amabilis, e un dipinto di notevoli dimensioni raffigurante un miracolo di S. Francesco da Paola. Sorrenti aggiunge I Santi Martiri Pantaleone e Sergio olio, Pignataro Erodia[de] con la testa di S. San Giovanni. Tra i secondi La Giustizia, Galatea, La Sibilla, Leda e il cigno, Venere allo specchio. Opere in cui «il De Mattia si è ispirato ai grandi pittori del passato» presenti nelle chiese e nelle gallerie di Roma e Napoli. «Ben riuscito ‒ conclude giustamente Stangarone ‒ ci sembra infine l’Autoritratto» (p. 30).
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Giuseppe De Mattia è un artista ‘locale’. La sua notorietà non esce dai confini della città o al massimo della provincia d’origine. Inoltre, i suoi dipinti sono in massima parte devozionali (prima ancora che religiosi), e per di più realizzati con uno stile tradizionale, completamente chiuso alla modernità: neoclassicismo, romanticismo, realismo, impressionismo, surrealismo, divisionismo, ossia le grandi correnti del secolo XIX gli sono ignote o per lo meno estranee. La sua pittura è interessante qualitativamente, ma anche grevemente conformista.
D’altronde, siamo proprio sicuri che il profilo di De Mattia sia questo? Può essere che dobbiamo vedere la sua attività artistica da un altro punto di osservazione?
Il solo elenco dei suoi modelli per lo meno possibili, in quanto compatibili con il suo stile, è impressionante. Eccolo: Leonardo Castellano, Agostino Carracci, Ludovico Carracci, Guido Reni [D’Elia e Tagarelli], Francesco Salviati; Domenico Zampieri detto il Domenichino, Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, Bartolomeo Gennari, Massimo Stanzione [Pasculli Ferrara], Andrea Vaccaro, Bernardo Cavallino, Battistello Caracciolo, Jusepe de Ribera detto Lo Spagnoletto, Pacecco de Rosa, Francesco Solimena, Carlo Rosa, Paolo Finoglio, Andrea Malinconico; Francesco De Mura, Carlo Maratta, Francesco Trevisani, Marco Benefial; Filippo Palizzi, Domenico Morelli, Michele Sparavilla, Giambattista Vinacci; et alii. Ne viene fuori il profilo di un pittore coltissimo e raffinato, e soprattutto dotato di uno stile personale, che è il risultato di un’intelligente rielaborazione delle ‘fonti’.
L’elenco è di per sé eloquente. Non tanto perché nutrito, ma perché ‘organico’, nel senso che denuncia una precisa scelta stilistica e tematica di De Mattia. Infatti, c’è come un filo rosso che collega tra loro i numerosi artefici evocati: a ben vedere, tutti questi pittori provengono da un’area di confine tra classicismo e caravaggismo, in cui si cerca di metabolizzare il luminismo di Caravaggio, senza scompaginare le strutture formali tradizionali ed in particolare la scansione dei piani compositivi entro uno spazio centralizzato.
De Mattia, insomma, non è un pittore meramente erudito, indotto dalla sua stessa condizione di marginalità a sfoggiare un sapere magari raffazzonato; ma al contrario è un artista che opera con consapevolezza, sceglie con cura i suoi modelli di riferimento e giunge a costruirsi una ‘forma’ del tutto personale.
La molla interna di tutta l’attività artistica di De Mattia è il rifiuto deciso, costante, degli effetti speciali e della modernità, in tutte le sue configurazioni. In realtà, è un rifiuto che nasce dall’adesione ad un particolare sistema di valori, come la sobrietà, la remissività, la gentilezza vigile e laboriosa; valori ‒ non necessariamente regressivi ‒ di cui si appropria la Restaurazione, che, a sua volta, dà vita al clima culturale in cui si forma il giovane De Mattia (è stato giustamente osservato che uno dei pilastri ideologici della Restaurazione è quello stesso Edmund Burke [1729-1797] che rilancia Il Sublime nell’Europa del Sette/Ottocento con uno scritto che costituisce il manifesto del Romanticismo).
La pittura di De Mattia è lo specchio della sua vita. «Non posso fare quello che voglio di ciò che è mio? […] I primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi» (Mt 20, 15-16). Di questa ‘strana’ parabola si può evidenziare il tema dell’arbitrio divino («Non posso fare quello che voglio di ciò che è mio?»), e quindi della predestinazione. Oppure, si possono valorizzare le ultime parole («I primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi»), come il programma dell’umiltà, magari accanto a Lc 18, 9-14 (parabola del fariseo e del publicano).
È l’umiltà (e la rinuncia a sé stesso) la virtù che persegue De Mattia in tutto l’arco della sua esistenza e della sua attività artistica.
Tra i grandi artisti, lui si siede per ultimo (appunto), attento a non farsi notare né per abilità compositive, né per capacità d’innovazione: la marginalità della sua vita e della sua pittura sono solo apparenti, in realtà questo pittore, dimesso e sconosciuto, ha reinventato in pieno secolo XIX l’antichissimo tema della docta ignorantia (bisogna farsi ignoranti per acquisire doctrina, sgomberare la mente per riempirla di cose nuove e belle).
Lo stile di De Mattia è facilmente riconoscibile. Le linee compositive sono falcate, le superfici quindi risultano avvolgenti, le masse ‒ solide e caratterizzate ‒ appaiono un po’ sfuggenti, come i volumi, cioè lo spazio che include le figure, che non si accampa maestoso dinanzi allo spettatore, ma in qualche modo se ne ritrae, quasi con timidezza. Il tema della humilitas (non solo contenutistico, ma anche e soprattutto formale) pervade anche le soluzioni cromatiche: la dominante è quasi sempre un accordo fugace, sommesso, di toni freddi e spenti (il blu e il bianco, il rosso tendente al rosa o all’arancio, il viola metallico), che spesso illividiscono l’immagine o la sospendono, in ogni caso la risolvono in una musica silenziosa.
Il mondo di De Mattia ‒ a parte la terribile pestilenza del 1815 ‒ è il mondo della Rivoluzione, poi della Restaurazione, e poi ancora delle sommosse nazionali e popolari, insomma è il mondo di Napoleone III, ma anche di Karl Marx e di Friedrich Engels, il mondo che De Mattia si ostina ad ignorare.
Ed è questa chiusura che gli inibisce un qualsiasi ‘svolgimento’ della sua arte, al punto che la cronologia delle sue opere è come piatta, lunghissima, ma allo stesso tempo percepibile a colpo d’occhio,con un unico sguardo, perché tutto sommato senza sorprese… È questa povertà la sua ricchezza, che lo apparenta a un altro personaggio del secolo XIX, vissuto a Conversano, la città di Mucedola e Morea: penso a Pietro d’Erchia, educatore oltre che sacerdote, autore di un saggio sull’amicizia e di un dialogo sull’educazione da cui traspare la cauta, ma convinta adesione ad un liberalismo cattolico diffuso tra le alte gerarchie di Conversano.
Ma c’è qualcosa ‒ al di là della devozione ‒ nella pittura di De Mattia, che tocchi le corde più profonde del nostro essere? A ben vedere, esiste una costante figurativa che attraversa tutte le sue opere, quale l’articolarsi degli sguardi, o meglio ancora, il loro grado di intensità. I personaggi dei quadri di De Mattia, infatti, sono generalmente sante e santi ‒ per cui non deve stupire che i loro sguardi tendano verso l’alto o verso figure sacre di maggiore importanza, come la Vergine e lo stesso Gesù. (È noto che dal Concilio di Trento in poi la santità dà diritto alla semplice dulia, venerazione; mentre alla Vergine va tributata l’iperdulia, che è una sorta di super venerazione, che implica la trasmissione di sé a Dio tramite appunto Lei, la Vergine; e a Dio si deve l’adorazione, latria, ossia la completa cessione di sé a Lui).
Più che la direzione degli sguardi conta però la loro ‘qualità’, nel senso ‒ e in questo si rivela la grandezza dell’uomo e dell’artista ‒ che sono sempre sguardi penetranti, che chiedono e danno affetto, il volto umano della Carità.
Mi riferisco ad alcune composizioni in collezioni private: i due volti di Cristo come Ecce Homo, da cui traspare l’abbandono del Figlio nelle mani del Padre, nonché alla tenerezza con cui la Vergine si china verso il bambino che intanto sgambetta nudo al suo fianco e la fissa amorevolmente. Ma soprattutto alla Sibilla che interroga il passato con gli occhi, mentre dipana il rotolo del destino.
Un’ultima osservazione, sui nudi ‒ naturalmente profani.
Alludo alla Giustizia, a Venere allo specchio, a Leda e il cigno.
A differenza dei quadri religiosi, che sconfinano spesso nell’ex voto ‒ grazie alle sproporzioni e al fermo immagine, nonché alla fissità delle espressioni ‒ questi dipinti mostrano il corpo nudo femminile con squisitezza gioiosa e con un tocco di elegante sensualità.
Su una delle arterie del centro storico di Noicattaro (bellissimo) si affaccia una chiesetta, del secolo XVIII, che è un piccolo gioiello architettonico. È dedicata a Santa Lucia, la popolare martire di Siracusa che spinge Beatrice a soccorrere Dante smarrito nella selva (Inf II 97-108), come ricorda San Bernardo di Chiaravalle in Par XXXII 136-138, e dopo che lo stesso Virgilio ha esaltato «li occhi suoi belli» (in Prg IX 62). La devozione di Dante è da mettersi in relazione con una infermità della vista che lo colpisce, e che egli stesso rammenta in Cnv III ix. Straordinario è Il seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio (olio su tela, 1608, Siracusa, Santuario di Santa Lucia al Sepolcro): l’espressione compunta, commossa, dei due «becchini» (l’espressione risale a L. Venturi) toglie alla santità quell’alone aulico che spesso la accompagna.
L’interno della chiesetta è sobrio, raccolto. Tra i pochi arredi figura un quadro rappresentante San Tommaso di Villanova, arcivescovo e benefattore spagnolo vissuto tra il 1486 e il 1555.
Del quadro Luigi Stangarone, attento ed esauriente, non fa menzione. Compare invece, attribuito a Giuseppe De Mattia, nella voce di wikipedia dedicata al santo. L’attribuzione non è pacifica (come non lo è l’attribuzione della Madonna della Cintura nella chiesa di Sant’Agostino di Bisceglie, che Stangarone, al seguito di Celestino Giannelli, attribuisce a De Mattia, tav. XI e pp. 22-24; ma che l’«Associazione Storico-Culturale Sant’Agostino», attribuisce ad Anonimo di Bisceglie del secolo XVII). Secondo Sebastiano Tagarelli il ritratto dell’arcivescovo è da assegnare, sia pure con una certa prudenza («forse»), a Giambattista Vinacci, pittore vissuto tra il 600 ed il 700, al cui casato è intitolato un vicolo cittadino. Intanto, è singolare che un quadro della fine del 600 o dei primi del 700 possa essere preso per un quadro dell’800. E viceversa.
A Giambattista Vinacci appartiene sicuramente la tela delle Suore Crocifisse di Rutigliano che raffigura la Madonna del Carmine tra santa Chiara e san Francesco, e Tagarelli è incline ad assegnargli anche «la pala […] di Sant’Antonio abate» nella chiesa dell’Annunziata, nonché «alcuni quadri francescani nella chiesa dei Cappuccini», ben poco per tentare un confronto e quindi un’attribuzione.
Per contro, il confronto con De Mattia è ampiamente possibile e si risolve positivamente.
Notare infatti la lunga linea perfettamente falcata che unisce la mitra con la guancia sinistra del santo, e, sulla banda opposta, quella formata dall’orlo della pianeta aperta sulla cocolla agostiniana (Tommaso da Villanova era monaco agostiniano); mentre non si ritrova la fissità liturgica dei quadri di Vinacci.
Ma forse c’è un dettaglio dirimente. Occorre confrontare il ritratto di San Tommaso con quello del beato Egidio. In entrambi i ritratti si nota un lieve gonfiore delle guance, quasi una sigla figurativa, al pari delle orecchie di Caravaggio, e proprio come queste il risultato di un modus operandi della mano.
Nicola Troiani