Troppo banale leggere quelle parole solo alla luce della parabola berlusconiana. Semmai converrebbe considerare che tutta la politica, da molti e molti anni a questa parte, pratica la sua dismisura. Si allarga, si espande, si gonfia, esagera, si illude di poter essere risolutiva. E poi, inevitabilmente, si trova a pagare il prezzo che la perdita della misura prima o poi esige anche dai più talentuosi.
E’ una storia lunga e lontana -e molto trasversale. C’era forse un eccesso anche nei partiti di prima. Quei partiti che ora un po’ tutti ci troviamo a rimpiangere. Ma che appena pochi anni fa erano finiti sul banco degli imputati perché troppo ingombranti, troppo esosi, troppi carichi di pretese e incombenze. Quelle loro sedi disseminate sul territorio, quelle loro reti clientelari che accudivano l’elettorato, quella loro ambizione di forgiare la vita del paese fino al più minuscolo dei dettagli, tutto questo aveva finito a lungo andare per offuscare la loro funzione di raccordo tra la società e il potere.
Così, siamo entrati a passo di danza in quel territorio disordinato che abbiamo battezzato ‘seconda repubblica’. Un territorio che Berlusconi ha coltivato per un verso e maltrattato per un altro verso. Già, perché la disputa intorno alla sua figura, così appassionata e così sopra le righe, da una parte e dall’altra, ha finito a sua volta per arroventare un clima che si voleva più temperato ora che si stava finalmente uscendo dalle dinamiche della guerra fredda e delle dispute ottocentesche. Dunque, un altro eccesso, anzi forse due eccessi intorno a un uomo solo.
Nel frattempo aveva preso corpo il populismo, in mille varianti -anche di palazzo, per così dire. Che a sua volta ha reso incandescente il conflitto tra il popolo e le élite, tratteggiando nuove linee di frattura oltre a tutte quelle che ci trovavamo ad ereditare dal passato. Così, la condanna della politica di prima si è unita a una smisurata fiducia nelle risorse della nuova (anti)politica che ora ne prendeva il posto. Esagerando, una volta di più.
Insomma, tra mille divisioni e contraddizioni la politica si è trovata quasi sempre sopra le righe, fidando -anche troppo- nella propria capacità di risolvere i problemi e di conservare il consenso. In questo modo ha finito per suscitare aspettative a cui era assai difficile corrispondere, alzando fino al cielo l’asticella del salto su cui fatalmente le sarebbe capitato, prima o poi, di inciampare.
Ora, si dirà che tutto il mondo è paese e che questi inconvenienti capitano a ogni latitudine. E’ vero. Ma è vero anche che nel nostro paese la politica ha un significato assai particolare, e che il peso delle delusioni ci risulta sempre particolarmente oneroso. Dunque, la quantità di tutte quelle delusioni che ci capita di accumulare richiede forse un ripensamento più profondo su quanto la politica può (e su quanto non può) fare a beneficio dei cittadini e delle istituzioni.
Si tratta in altre parole di cominciare a relativizzare la politica, di spogliarla delle aspettative troppo messianiche di cui siamo soliti rivestirla, di non addossarle pesi che essa non è più in grado di portare in spalla. Di farla scendere per terra, in una parola. Rinunciando a pretese eccessive e acconciandosi semmai ad amministrare con più accortezza se stessa e il proprio paese. Certo, non si può concepire la politica senza passione, né ridurla a una sorta di arida funzione manageriale, questo no. Ma si può, e forse si deve, cercare almeno di volare all’altezza delle proprie concrete possibilità piuttosto che nella stratosfera delle proprie ambizioni irraggiungibili.
E’ probabile che il prossimo ciclo politico sarà affidato a chi saprà camminare meglio tenendo saldamente i piedi per terra”.
(di Marco Follini)