Ci si potrebbe consolare pensando che le vie di mezzo hanno il merito di accontentare un po’ tutti. Ma è una contentezza del tutto fasulla. Salomone infatti in questo caso è stato letteralmente capovolto. Nel senso che alla fine tutti si sono dichiarati insoddisfatti e che il nostro servizio pubblico ha fatto una pessima figura -tirato di qui e di là per giorni e giorni in una contesa che non sembrava avere né troppo capo né troppa coda.
Il fatto è che sono anni e anni che su viale Mazzini si esercita una pressione politica che pretende di farsi sempre più dettagliata e prescrittiva. Chi scrive, sia chiaro, non può professarsi più innocente di tanto, avendo fatto parte in anni lontani del consiglio di amministrazione della Rai in nome e per conto del suo partito, la Dc. Ma temo che da allora ad oggi le cose siano cambiate in peggio, e che magari sia arrivato il momento in cui si possa aprire una riflessione meno ovvia e scontata sul rapporto tra politica e televisione.
Infatti, da quegli anni remoti di perfetta e quasi scientifica lottizzazione (copyright Alberto Ronchey) sono cambiate molte cose. Due in particolare. La prima è che si sono mescolati i generi televisivi fino a farne una gelatina indistinguibile (e anche indigeribile, il più delle volte). La seconda è che l’invadenza dei partiti si è miniaturizzata fino a perdere il senso dei vantaggi che pretende di ricavarne. Così per un verso la politica si è espansa di qua e di là, convinta di ricavare profitto dalle trasmissioni più spettacolari e fantasiose. E per un altro verso la sua influenza si è frammentata in mille e mille schegge rese ingombranti e irrilevanti dalla loro stessa continua e irrefrenabile moltiplicazione.
Un tempo i partiti sceglievano i direttori di rete e di testata. E poi però si affidavano alle loro cure, il più delle volte appagati, qualche altra volta più pretenziosi, talvolta perfino scontenti. Il messaggio politico era scarno, attento a presidiare i confini dell’ufficialità. Poi, pian piano, quei confini si sono dilatati. E la macchina dello spettacolo ha cominciato a macinare argomenti pubblici sempre più vari e sempre più strategici. Se al tempo di Ettore Bernabei la questione poteva essere quella delle gambe delle gemelle Kessler, negli anni seguenti ogni trasmissione di varietà, di fiction, di spettacolo è diventata una sorta di tribuna politica surrettizia. I leader e i loro spin doctor hanno preso atto che la loro influenza faceva meglio a passare attraverso canali inediti. Fino al festival di Sanremo, per l’appunto.
Sono i codici della comunicazione politica moderna, che è sempre più fantasiosa e sempre meno canonica. Un gigantesco e variegato palcoscenico che una classe dirigente più incerta di sé e del suo insediamento nel cuore del pubblico ha preso a calcare con una disinvoltura sempre più intraprendente. Con l’effetto di ampliare ancor più i margini della propria presenza e influenza. Ma senza il ritorno di popolarità che ci si sarebbe aspettati. Il fatto è che quanto meno ci si sente ben accolti nel tinello di casa dei propri elettori, tanto più li si va a cercare con le scuse più varie. E anche magari, con quelle più improprie. Salvo scoprire l’indomani che forse il gioco non valeva la candela.
E’ questo lo sfondo del ‘caso’ Sanremo. Che non avrebbe meritato tutte le polemiche di questi giorni. Ma che rende ancora più evidente la deriva di una comunicazione politica che non rispetta più i vecchi confini e insiste a mescolare il sacro e il profano in modi che ai più attempati tra di noi suonano lievemente impropri. Già, perché tutta quella politica che ai nostri giorni si affanna, e si irradia di qua e di là, e coglie ogni occasione per suscitare la curiosità del pubblico, si rivela infine suo malgrado come un gigante dai piedi d’argilla. Sempre più imponente, ma anche sempre più fragile”.
(di Marco Follini)