L’ARTE ITALIANA TRA LE DUE GUERRE IN MOSTRA A LUGANO
C’è un soleggiato Mattino sul mare, con il paesaggio marino semplificato, purificato, fino a raggiungere la potenza di un’immagine archetipica, realizzato nel 1928 da Carlo Carrà a Forte dei Marmi. E ci sono I giocatori di toppa, dipinto otto anni prima da un Ettore Rosai che restituisce senza indugi la sua critica sociale verso un’umanità ai margini.
Ad accomunare queste due tele è la compostezza, il linguaggio schietto, alla ricerca della sintesi e dell’essenzialità, del recupero di una forma compositiva classica che sono anche i principi di quel “Ritorno all’ordine” di cui Carrà si fa pieno interprete nei primi anni Venti, dopo essere stato tra i fondatori del futurismo e all’indomani dall’esperienza della guerra.
Sono solo due dei trenta capolavori dell’arte italiana – realizzati tra le due guerre da alcuni tra i più importanti artisti dell’epoca, da Massimo Campigli a Giacomo Manzù, da Scipione e Mario Sironi – in mostra a Palazzo Reali, una delle due sedi del Museo d’arte della Svizzera italiana (MASI) di Lugano, dal 22 maggio al 29 gennaio.
Grazie a una collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia, questo eccezionale nucleo di opere – proveniente da storiche collezioni d’arte italiane e recentemente entrato come deposito a lungo termine presso Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna – Fondazione Musei Civici di Venezia – sarà al centro di un percorso a cura di Cristina Sonderegger. Ad eccezione di Scipione e Manzù, che seguono traiettorie più indipendenti, gli artisti in mostra condividono un percorso comune: dopo l’esperienza delle avanguardie, e, per alcuni, della guerra, sposano quei principi di “Ritorno all’ordine” del gruppo del Novecento italiano, promossi e teorizzati all’inizio degli anni Venti da Margherita Sarfatti.
Per gli esponenti del gruppo il superamento delle avanguardie – specie quella futurista, ampiamente condivisa dagli artisti in mostra – si esprimeva nel recupero delle forme classiche e della semplificazione compositiva e formale, propri alla tradizione primitiva e rinascimentale italiana. Motivo per cui le opere esposte sono accomunate, sul piano stilistico, dalla ricerca di sintesi, dall’armonia e dall’essenzialità formale, aspetti che, tra il 1920 e il 1950, caratterizzarono l’arte italiana ed europea.
L’allestimento segue un ordine per autore e snocciola lavori che segnano scelte stilistiche e tematiche fondamentali nell’opera dei singoli artisti, oppure raccontano una storia collezionistica ed espositiva di un certo interesse. Il pubblico è quindi invitato a seguire liberamente un proprio itinerario, per galoppare tra Le amazzoni di Massimo Campigli (tela realizzata nel 1928, dopo la “folgorazione” per l’arte etrusca durante una visita al museo romano di Villa Giulia) o presentarsi al cospetto della Donna ingioiellata o del Venditore ambulante di Ottone Rosai, per poi insinuarsi tra le Casine sul Sesia di Carrà.
I dipinti di Mario Sironi Pandora e Il bevitore (1923-24) quest’ultimo parte della collezione Sarfatti fino agli Cinquanta, aprono idealmente la mostra. Il tema del bevitore ricorre spesso nella ricerca dell’artista e, al contrario di altri soggetti, incarna l’antieroe, simbolo di un disagio del quale era vittima, a tratti, anche lo stesso Sironi, tra crisi creative e depressive.
In quest’opera lo spettatore è invitato ad apprezzare un esempio significativo della fase sperimentale in cui il pittore sardo cerca di conciliare la solidità novecentista con soluzioni formali legate alle avanguardie. La maturità del suo pennello emerge tuttavia in Pandora, dove il nudo femminile sfuma in un’immobile figura monumentale, una sorta di statua antica, scolpita in un paesaggio roccioso e primordiale che ricorda gli sfondi di Leonardo da Vinci.
Alla schiettezza di queste forme e all’austerità dei colori si contrappongono le tinte vibranti e le azzardate prospettive delle opere di Gino Bonichi, detto Scipione, figura che manifesta tutto il suo dissenso verso il regime e verso il realismo del gruppo del Novecento. La mostra a Lugano sceglie di presentare le sue opere più intense: il Bozzetto per il ritratto del Cardinal Decano e lo Studio per Cardinal Decano, parte di un ciclo sul Cardinale Vincenzo Vannutelli, che culminerà nel celebre ritratto conservato alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.
L’ossessione per l’immagine cardinalizia accompagna anche l’opera di Giacomo Manzù, che ne rimane impressionato durante una cerimonia a San Pietro. Nella sua scultura Cardinale, datata 1952, le forme bloccate e un trattamento semplificato elevano l’ecclesiastico a figura emblematica.
La Ragazza sulla sedia, monumentale scultura a grandezza naturale concepita nel 1949, somiglia invece quasi a un calco dal vivo. Un tema accademico come quello della modella in posa diventa per Manzù un esercizio di purezza lineare.