Le cinque calcàre di Turi

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Stefano de Carolis ci porta alla scoperta delle antiche ‘fornaci’ dove, tra fatica e insidie,
si produceva la calce viva

«Anni fa ho iniziato ad occuparmi della storia dei manufatti legati all’archeologia industriale di Turi – ripercorrendo le origini e gli usi delle neviere, delle fornaci per la produzione di potassia e dei trappeti – con l’intento di riscoprire e divulgare quella “antica saggezza” che animava il nostro mondo agricolo. Sull’onda di questo viaggio nel passato, mi sono interessato anche delle calcàre, le antiche fornaci dove la pietra veniva cotta e trasformata in “calce viva”, diffuse in particolare nella zona premurgiana».
Così Stefano de Carolis, giornalista e cultore di storia locale, introduce la sua nuova ricerca che ci riporta indietro di un secolo e narra i primi passi dell’arte edile turese.

«Un input decisivo – rivela – è arrivato la scorsa estate, quando mi sono imbattuto nelle due calcàre presenti all’interno del Bosco di Monteferraro: le fornaci, prima di allora sconosciute, sono state preservate intatte dalla natura, a differenza di molte altre cancellate dallo scorrere del tempo. Ho quindi approfondito il tema, consultando varie fonti e arrivando a localizzare altre 5 calcàre attive nell’agro di Turi; un dato significativo per un piccolo centro che non lascia dubbi sull’importanza che la produzione di calce ha avuto nella nostra economia».

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Una delle due calcàre rinvenute nel Bosco di Monteferraro

De Carolis, tuttavia, non si è limitato a passare in rassegna il territorio alla ricerca delle tracce delle calcàre: con il nobile scopo di trasmettere alle future generazioni il sapere e le tecniche del passato, ha raccolto la testimonianza dell’ultimo ‘calcarolo’ di Turi: Vito Stefano Lefemine (classe 1938), detto Ninuccio.

«Ninuccio – commenta de Carolis, prima di cedere la parola al suo illustre intervistato – racconta il lavoro sfiancante, tramandato di padre in figlio, fatto di notti insonni a guardia del fuoco che ardeva sotto la calcàra. Nelle sue parole si coglie tanto l’orgoglio, per aver prodotto la calce con cui è stato edificato buona parte del Borgo Nuovo, quanto la pericolosità di questo mestiere, che portava ad essere a contatto con le esalazioni di anidride carbonica che si sprigionavano nella fase di cottura delle pietre. Tante le insidie e una distrazione poteva costare la vita, come conferma la disgrazia, avvenuta negli anni ’50, di cui Ninuccio fu testimone: uno degli operai fu ritrovato esanime, molto probabilmente perché si era addormentato durante il turno di notte e aveva respirato i miasmi sprigionati dalla calcàra».

Ninuccio Lefemine, l’ultimo dei ‘calcaroli’ turesi

lefemine ninuccio

«Mio padre, Giuseppe Lefemine (classe 1908), ha fatto il ‘calcarolo’ per 35 anni, imparando i segreti del mestiere dai ‘calcaroli’ di Putignano. Io ho iniziato a dare una mano all’età di 10 anni: dopo la scuola, aiutavo a prendere le fascine di legna che servivano per alimentare il fuoco della fornace e a scaricare le pietre che sarebbero state trasformate in calce spenta. Finita la scuola, ho seguito le orme di mio padre, dedicandomi alla produzione di calce per circa 15 anni.

Anche uno zio, Vito Oronzo Perfido (classe 1909), provò a fare il mestiere del ‘calcarolo’ ma, dopo pochi anni, si ritirò perché era un lavoro troppo faticoso».

L’arte di allestire una calcàra

«I luoghi in cui veniva allestita la calcàra – riferisce Lefemine – erano principalmente tre: Serrone, Bosco di Procida e contrada Cisterna (nei pressi di Lama Giotta); in quest’ultimo sito lavoravano anche altri due ‘calcaroli turesi’ Giuseppe e Vito Di Fino.

La scelta dei siti non era casuale, venivano strategicamente costruite sui crinali delle lame, dove c’era la possibilità di trovare pietre calcàree di buona qualità, predisposte ad una migliore cottura.

Per preparare la calcàra, si iniziava scavando una buca, profonda un paio di metri e con diametro di 10-12 metri, le cui pareti venivano rivestite con le pietre, portate sul posto con i traini e scaricate con il rituale del “mano a mano”. Successivamente, si costruiva un muro circolare alto 3 metri (la camisa) con un’apertura che serviva per inserire la legna; si realizzava un terrapieno con al centro uno spazio vuoto (la camera di combustione) alto circa 2 metri e si posizionavano le pietre da cuocere, realizzando una specie di trullo di 3-4 metri di altezza. Il tutto veniva poi ricoperto con uno strato di terra per evitare la dispersione del calore, avendo cura di lasciare dei piccoli sfiati (fumarole) per agevolare la fuoriuscita delle fiamme vive che davano vita ad uno spettacolo di luci che si vedeva anche dal paese. Si realizzava, infine, una scala per controllare la sommità della calcàra».

calcaroli turi

Un lavoro massacrante

«Il fuoco – ricorda Ninuccio – doveva essere alimentato giorno e notte con fascine, legna sottile, potature degli ulivi e scorze di mandorla, affinché la temperatura interna restasse costante tra i 900 e i 1.200 gradi e le pietre cuocessero in maniera uniforme. Per questo, nella calcàra lavoravano 4 operai che si alternavano con turni da due ore. Si dormiva in una lamia in pietra, costruita da noi, arrangiandoci su pagliericci di fortuna.

Una calcàra produceva circa 250 quintali di calce e necessitava di pari quantità di legna. Se la temperatura esterna era mite, si lavorava 10 giorni, altrimenti anche un paio di settimane. Capivamo che la cottura era conclusa quando il colore delle fiamme che uscivano dalla sommità della calcàra si faceva dorato. A quel punto, smettevamo di inserire la legna e aspettavamo 2-3 giorni per far rassettare le pietre; poi si toglieva lo strato di terra e si “scaricavano” i sassi cotti, ridotti di peso e pronti per essere venduti».

calcara serrone
La calcàra in Contrada Serrone

ingresso calcara serrone

La vendita della “calce viva”

«Le zolle di “calce viva” – riprende la parola Stefano de Carolis – venivano acquistate sul posto dai costruttori di Turi, Putignano e Conversano che si recavano alla calcàra, pesavano il prodotto con la bascula e lo trasportavano direttamente sul cantiere. Tra gli acquirenti, c’erano anche piccoli rivenditori che compravano la “calce viva” e la conservavano in fosse scavate nei terreni attigui la propria abitazione, per poi venderla alla minuta applicando un sovrapprezzo che costituiva il proprio guadagno.

Negli anni ’50, il costo di un chilo di calce era di 60 lire. Da una calcàra si arrivava a guadagnare circa 150.000 lire (pari al prezzo di una mula); da questa somma, però, bisognava sottrare il costo del traino per il trasporto della legna, che era di 3.000 lire al giorno; il salario degli operai, che percepivano 600 lire per ogni giornata lavorativa (si noti che un chilo di pane costava 70 lire); la paga delle donne e dei bambini che raccoglievano il combustibile per la calcàra (legna e rami secchi) nei terreni dove si erano eseguite le potature.

Va ricordato, infine, che le zolle di “calce viva” per essere utilizzate dovevano essere “spente”, ovvero immerse in grandi vasche di acqua e mescolate bene; in base alla percentuale di acqua aggiunta si ricavava la “calce spenta” (o calce idrata o “latte di calce”) e il grassello (una pasta più densa ottenuta impiegando una maggiore quantità di acqua)».

Gli usi della calce

«Oltre all’impiego nell’edilizia – spiega de Carolis – la calce veniva adoperata come disinfettante: durante le epidemie di peste si era soliti cospargere le salme con la calce viva e, a pericolo scampato, si “passava la calce” anche sui muri dei lazzaretti. Ancora oggi si ricorre alla calce per depurare i locali d’allevamento al fine di prevenire malattie del bestiame (ad esempio l’afta epizootica e la brucellosi).

Il lattarulo

In agricoltura, si rivela una carta vincente per correggere l’acidità dei terreni e, unita al solfato di rame e all’ammoniaca, per il trattamento contro le più comuni malattie della vite (come la peronospora e lo oidio).

In Puglia, l’uso più comune di questo versatile materiale si verifica nell’“allattamento”, ovvero nella pitturazione dei muri delle abitazioni con il latte di calce (ottenuto diluendo la calce viva nell’acqua). L’operazione, generalmente svolta in primavera dopo la fine delle intemperie invernali, veniva eseguita da “u’ latcator” (così chiamato perché tingeva le pareti del “colore del latte”) utilizzando “u scupl”, un pennello di forma ovale che, come racconta Franco Cistulli, da bambino realizzava con i peli della coda del cavallo legati in piccoli mazzetti e poi raggruppati tra loro.

Ho ancora impressi nella mente i ricordi da bambino e soprattutto gli odori del latte di calce, quando alcuni imbianchini turesi venivano ad imbiancare casa: Antonio del Re, Antonio Ventrella e Pasquale Memola. Un vero e proprio rituale che, oltre a conferire il tipico colore bianco, caratteristico delle abitazioni della Valle d’Itria, aveva il vantaggio di mantenere inalterata la traspirabilità della pietra naturale, evitando depositi di umidità o condensa e svolgendo un’efficace azione disinfettante nei confronti di muffe e batteri».

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