Berlusconi, l’altolà ad Air France e l’arrivo dei patrioti per salvare Alitalia

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(Adnkronos) – “Un Paese turistico come l’Italia non può restare senza un vettore nazionale. Air France porterebbe i turisti a visitare le bellezze francesi, i castelli della Loira”. Era il marzo del 2008 quando Silvio Berlusconi pronunciò queste parole: era nel vivo la trattativa per la vendita di Alitalia ad Air France e, soprattutto, era nel vivo la campagna elettorale per le elezioni politiche del 13 e 14 aprile, che riportarono il centrodestra al governo del Paese.  

Poche parole, quelle del Cavaliere, pesanti come pietre, che catapultarono nell’agone politico i destini dell’ex compagnia di bandiera e fecero naufragare un negoziato, di per sé già complicato anche a causa delle resistenze sindacali, ma che comunque sembrava indirizzato a concludere l’accordo con il colosso aereo franco-olandese. 

Fatto sta che la sera del 2 aprile di 15 anni fa, il numero uno di Air France Jean Cyril Spinetta si alzò dal tavolo in corso con l’azienda e i sindacati e lasciò il ‘bunker’ della Magliana per non farvi più ritorno. Naufragava il piano concepito dal Governo Prodi e per la malconcia Alitalia cominciava tutta un’altra storia. Niente più francesi ma solo italiani: infatti, il piano cui pensava Berlusconi vedeva la discesa di campo di imprenditori italiani. La nuova cordata tricolore l’aveva anticipata il superconsulente berlusconiano, Bruno Ermolli: “È vero, stiamo lavorando a una cordata alternativa ad Air France per acquistare Alitalia. L’alternativa c’è…”, disse sempre in quei giorni di marzo. 

E così scesero in campo i 20 venti ‘patrioti’, come furono ribattezzati, o anche ‘capitani coraggiosi’. L’investimento in campo ammontava a 1,1 miliardi. La regia dell’operazione veniva affidata a Intesa SanPaolo, che predispose il piano Fenice, nuova rampa di lancio per far ripartire Alitalia. Nella compagine azionaria della compagnia Cai, entrarono Atlantia, l’Immsi di Roberto Colannino, che sarà nominato presidente, Fire spa di Emilio Riva, Pirelli. E, ancora, la folta pattuglia di imprenditori schierava, tra gli altri, la famiglia Angelucci, Francesco Bellavista Caltagirone, Carlo Toto, Marcellino Gavio, Marcegaglia, Orsero. Arrivò anche il partner industriale straniero, Air France con il 25%.  

Non avrà vita facile la nuova Cai, decollata nel gennaio del 2009, alleggerita dai debiti rimasti in capo alla bad company e anche dei dipendenti scesi a circa 12 mila unità. Ma sarà una stagione molto breve. La neonata Alitalia puntava a consolidarsi sul mercato domestico ma era stretta tra la concorrenza sempre più agguerrita delle compagnie low cost e dall’arrivo dell’alta velocità ferroviaria, che fa tramontare l’epoca d’oro della ricca tratta Roma-Milano. Cai rinnovò la flotta, con l’arrivo di aerei Airbus in “leasing onerosi” di una finanziaria irlandese in capo alla famiglia Toto di Air One. Ma i conti non riuscivano a risalire la china. L’obiettivo di turn around si allontanava e i bilanci tornavano a chiudere in profondo rosso. Nel giro di cinque anni, la compagnia ha cambiato tre amministratori delegati: Rocco Sabelli, Andrea Ragnetti e Gabriele Del Torchio.  

Alitalia continuava a bruciare cassa e presto si è resa necessaria una nuova ricapitalizzazione alla quale non ha partecipato Air France. Da Alitalia Cai ad Alitalia Sai, il passo è breve. Si chiude il capitolo dei capitani coraggiosi quando nel 2014 arriva un nuovo cavaliere bianco dalla penisola arabica, la compagnia Etihad. Eppure, davanti al fallimento di Cai, Berlusconi non ha dubbi e nel gennaio del 2013 dice: “Rifarei la stessa scelta. Il nostro Paese non può non avere una propria compagnia di bandiera. Se Alitalia fosse caduta nelle mani di Air France, conosco bene i francesi, tanti turisti sarebbero finiti a visitare i castelli della Loira invece che le nostre città d’arte”. Né più né meno le stesse parole pronunciate cinque anni prima.  

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