Il più importante fenomeno artistico del XX secolo in Italia è Novecento. È un gruppo di pittori che si forma a Milano a partire dal 1920. È costituito da Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Emilio Malerba, Pietro Marussig, Ubaldo Oppi, Mario Sironi, Arturo Tosi. La loro guida è Margherita Sarfatti, nata Grassini, ebrea, di facoltosa famiglia veneziana. La giovane è una scrittrice, dallo stile spigliato e accattivante, e per di più dotata di solida cultura artistica ed umanistica. Sarfatti è il cognome del marito, Cesare, avvocato, anch’egli ebreo e anch’egli appartenente al ceto medio alto veneziano, specializzato nel difendere gratuitamente i socialisti arrestati, ma anche profondamente interessato alla musica.
L’esperimento è ambizioso. Si tratta infatti di fondere tradizione e modernità. Quindi ripristinare la figura, ma allo stesso tempo realizzarla come un sistema di rapporti astratti. Le superfici sono tornite e soprattutto le masse, distanziate tra loro, e in qualche modo geometrizzate, tendono ad esibire una monumentale fisicità. La luce si effonde libera nello spazio, senza essere costretta a creare effetti luministici e/o chiaroscurali. Di conseguenza, le cose catturano la luce per restituirla come colore, vivo, brillante. Ma queste innovazioni non sono solo estetiche. In realtà, isolare gli oggetti nello spazio e caricarli di luce significa trasformarne l’aspetto fisico in una forma assoluta. In questo modo si salvano due principi opposti e complementari: da un lato il naturalismo, dall’altro l’astrazione, la cui filosofia era giunta in Italia proprio attraverso la critica serrata al purovisibilismo di Benedetto Croce (l’artista non rappresenta le cose come appaiono, ma come sono, insomma la struttura del reale, non le caratteristiche esteriori di un paesaggio, di un volto, o di una natura morta).
D’altronde, la mediazione di Novecento riguarda anche la cultura contemporanea, ed in particolare la metafisica e il futurismo. Infatti, metafisica e futurismo si collocano rispettivamente sui due versanti dell’astrazione e della figuratività. È appena il caso di aggiungere che in questo è la radice della critica al movimento di Valori Plastici, che appare (siamo nel 1918) piuttosto sbilanciato verso il recupero di un singolo momento per quanto fondamentale della storia artistica italiana, la formazione e la diffusione del linguaggio di Giotto.
Giusto in questi anni un giovane pittore triestino ancora sconosciuto (non lo sarà per molto) ha un piccolo colpo di fortuna. Un grande industriale gli affida niente di meno che la decorazione di alcuni ambienti di una villa sontuosa, che è già stata dei suoceri, e in cui adesso lui vive, sonando spesso un violino, sognando, e talora anche scrivendo, quando glielo permettono le vernici sottomarine e soprattutto Olga, l’arcigna ed energica madre della moglie, che è a sua volta la soave Anna Livia Plurabella (così la chiama Joyce, insegnante di inglese alla Berlitz). L’industriale è Ettore Schmitz, ossia Italo Svevo, il più grande scrittore che abbia avuto l’Italia dopo Manzoni; il giovane pittore è Dyalma Stultus. Italo Svevo non è soltanto l’uomo che ha portato in Italia la tecnica del «ciclo» narrativo e il metodo psicoanalitico, ma anche l’industriale intelligente che sa investire il denaro. Le risorse economiche di cui dispone lo spingerebbero a contattare artisti assai più noti e costosi di Dyalma Stultus, ma lui non ha bisogno di seguire le mode, o di affidarsi alle quotazioni, ha un occhio estremamente esercitato, anche per l’amicizia col grande Umberto Veruda, morto purtroppo a soli trentasei anni nel 1904. La crosta di un artista di successo costa di più, ma vale molto meno dell’opera – autentica – di un esordiente, a patto di saperla riconoscere ed apprezzare: che Svevo avesse letto l’Economia politica dell’arte di Ruskin è forse più che una congettura!
La pittura di Dyalma Stultus ha un posto di assoluto rilievo nell’arte del XX secolo. Nel 1926, con una mostra epocale, Margherita Sarfatti allarga il gruppo di Novecento, fino a comprendervi la maggior parte degli artisti contemporanei. Il fine è quello di inglobarvi le principali tendenze artistiche dell’Italia dell’epoca – e presentare il fascismo (sponsor del gruppo e della stessa manifestazione) come un regime aperto e pluralista, in grado di promuovere la cultura (il 1926 è l’anno delle leggi fascistissime!). Sappiamo che Margherita diramò un mare di inviti a destra e a manca. Sappiamo anche che la dilatazione del movimento in qualche modo lo snaturò, causandone una crisi irreversibile. Ancora oggi non è ben chiaro come pensasse di accordare tra loro futuristi e metafisici. In realtà, l’operazione poteva contribuire a superare la secolare frantumazione delle esperienze artistiche nell’Italia moderna e a creare un’arte nazionale, antico sogno (rimasto tale, purtroppo) dei Macchiaioli. La forza d’attrazione di un mito come questo è incalcolabile. Dopo Venezia Trieste è il porto più rilevante dell’alto Adriatico, creato da Maria Teresa d’Austria proprio per contrastare il monopolio della Serenissima. Trieste quindi è una città di confine che ovviamente risente di tutte le ambiguità delle città appunto di confine: in altri termini, è una città austriaca, ma allo stesso tempo profondamente italiana. E la cultura italiana è percepita a Trieste come un’entità chiusa, di altissimo livello, in cui occorre entrare a tutti i costi. Ecco il motivo per cui la più moderna e mitteleuropea delle città italiane è anche la più conservatrice per quanto attiene alla lingua e alle forme espressive. (Il movimento operaio a Trieste risentirà pesantemente della contraddizione tra internazionalismo socialista e irredentismo. Esemplare al riguardo la vita di Angelo Pahor, 1890-1958. Sottufficiale di macchina della marina austroungarica, partecipa alla sollevazione della baia di Kotor, novembre 1917, che poi dirige, finendo con l’assumere il comando dell’incrociatore Panther, prima di essere arrestato e processato).
Va sottolineato che questa non è soltanto la condizione di un giovane ancora ‘acerbo’ come Dyalma Stultus, poco più che ventenne, ma anche (e direi soprattutto) di scrittori di primo piano come Italo Svevo e Umberto Saba. Alfonso Nitti ed Emilio Brentani sono le prime due incarnazioni dell’inetto sveviano (la terza, parecchio distanziata nel tempo, sarà Zeno Cosini), ed è degno di nota che entrambi coltivano il sogno della gloria letteraria, ponendosi come modelli i classici italiani. Quanto ad Umberto Saba, è noto il suo programma di riannodare il «filo rosso» della tradizione e quindi ripristinare le forme metriche tradizionali (principalmente il sonetto, l’endecasillabo e il settenario, la rima). È in questo clima che Dyalma Stultus aderisce a Novecento, grazie anche a Felice Carena, illuminato maestro. Il che – d’altronde – non è un episodio personale, bensì un evento storico, in quanto ha comportato l’innesto di Novecento nella cultura artistica triestina, vivace e ricca di figure di rilievo, ma anche alquanto attardata. Ecco perché quella di Dyalma Stultus è una figura centrale nella storia dell’arte dell’Italia moderna, e questa è anche la ragione per cui Noicattaro deve essere fiera di custodire in una istituzione pubblica un numero così alto di opere di Dyalma Stultus, forse il più alto tra tutte le raccolte dell’artista.
Sosta al ponte è un quadro in apparenza piuttosto semplice. La stesura cromatica è larga ed uniforme, lontana sia dai facili effetti luministici che da sfumati tardo impressionistici. Lo spazio è dilatato, e rigorosamente prospettico. La luce si distende nello spazio ed arrotonda le masse. Un’altra caratteristica del quadro, certo non secondaria, è il tempo, l’esasperata lentezza con cui si svolge l’azione. Insomma, da un lato il fermo immagine divisionista, dall’altro la luce chiara, astratta, dei macchiaioli. L’immagine si configura quindi come pregnante, estranea al dinamismo e al tumulto cromatico della storia e della vita ‘reale’.
A destra, seduto su un rialzo del suolo, di spalle rispetto allo spettatore, vi è un bambino biondo con una camicia bianca e lunghi calzoni azzurri che regge in grembo una zucca di grandi dimensioni come quelle che spiccano sul lato opposto. L’intero lato sinistro del quadro è occupato invece da cinque o sei personaggi. Di quattro di essi scorgiamo i volti – un ragazzino biondo ripreso da tre quarti e con lo sguardo fisso su di noi (è l’unico a guardarci fissamente), una ragazza con una cuffia bianca ed una blusa celeste, un’altra giovane con una tunica rossa aperta tra le gambe e un altro adolescente con una camicia bianca. Di spalle, anch’egli in camicia bianca, un giovane è in atto di guardare la ragazza della tunica rossa appoggiando la mano destra sopra il ginocchio del pantalone color marrone; e quasi al centro fisico della scena, semicoperto, sembra esserci un altro personaggio, di cui scorgiamo solo la folta capigliatura.
Tra il bambino di destra e il gruppo di sinistra, raffigurata di spalle, una giovane bionda, con i capelli a crocchia sulla nuca, completamente nuda: con la mano sinistra lascia pendere lungo il fianco un panno azzurro meticolosamente drappeggiato, solleva il viso in direzione del ponte che corre in alto, e con la destra sembra accennare un saluto al treno. In primissimo piano, nell’angolo inferiore sinistro del quadro, una natura morta formata da una canestra con tre enormi zucche gialle.
Lo sfondo è montuoso: a destra e a sinistra due montagnole tozze e brulle, quella di destra in dietro, l’altra in avanti, collegate tra loro da un altissimo ponte costituito da tre arcate e attraversato da un treno.
In alto e tra le arcate del ponte fa capolino un cielo azzurro uniforme nel quale si staglia la cima arrotondata di una terza montagna.
A destra un tronco d’albero spezzato e ancora più in là un breve specchio d’acqua attraversato da una sorta di pinna scura.
La nuda è l’unica figura appunto nuda, ma anche l’unica in piedi. Le altre sono tutte vestite e sedute. Il che ci spinge a domandarci: insomma, cosa stiamo vedendo? Qual è il senso del quadro, il suo significato, non diciamo profondo, ma almeno superficiale?
Le singole ‘parole’ del quadro sono immediatamente decifrabili: le zucche sono le zucche, il ponte è il ponte, e così via. Sfuggente è invece la sintassi, cioè il significato che assumono questi dettagli insieme. Ma per trovare il filo rosso che connette tra loro tutti i particolari del dipinto e conferisce loro un senso è indispensabile trovare l’archetipo o addirittura gli archetipi di questa immagine, tremendamente complessa, nonostante le apparenze di gaia semplicità.
In basso sulla sinistra tre zucche in una canestra. In alto il treno, semplificato in un’unica automotrice (o più probabilmente in una «littorina») che attraversa un ponte vertiginosamente alto. Il meccanismo simbolico è abbastanza scoperto: le zucche nella canestra simboleggiano la natura, il ponte e il treno la storia. In mezzo, fra il treno e le zucche, un gruppo di ragazze e di ragazzi visibilmente legati l’un l’altra da vincoli familiari. Nessuno sta guardando la nuda. La nuda appare solo a noi che stiamo fuori del quadro, la sua è una presenza ‘simbolica’, un «mito».
C’è un altro quadro in cui compare una analoga dicotomia, tra le banane in primo piano e il treno, nonché il veliero, in fondo: è un quadro di De Chirico, ovvero L’incertezza del poeta. È un olio su tela, venne dipinto nel 1913, ed è custodito a Londra dove pervenne nel 1985 a seguito di un regolare acquisto (dal maggio del 2000 è alla Tate Modern Gallery). Nel dipinto di Stultus, c’è qualcosa di più o almeno di diverso, un gruppo di ragazze e di ragazzi visibilmente legati da vincoli familiari.
Il quadro di De Chirico fornisce almeno altri due ingredienti a Stultus. Intanto le arcate a tutto sesto dell’edificio a destra, che qui si spostano a sinistra e costituiscono il ponte su cui viaggia il treno. Ma soprattutto la statua, che Stultus integra, e che vivifica traducendola in corpo vivo, oltre naturalmente a collocarla di spalle, un po’ come De Chirico stesso aveva raffigurato di spalle il Dante di Piazza Santa Croce. (Al classicista De Chirico non era certamente sconosciuta la poesia di Carducci. Il treno come immagine del progresso saluta dalla strofa finale dell’ode Alle fonti del Clitumno, del 1876. Nel 1863 il treno aveva percorso il mondo come forza vendicatrice della ragione [A Satana]).
Inoltre, che queste sei persone (o sette, contando anche la capigliatura che si intravvede subito dopo la quinta figura da sinistra) sedute, costituiscano un nucleo familiare coeso si spiega con l’articolazione degli sguardi: il giovane di spalle con la camicia bianca e la ragazza seduta con la blusa scarlatta sono le due uniche figure in atto di scambiarsi gli sguardi. Il giovane si tocca la gamba destra, la giovane solleva leggermente la gonna sulle gambe, gesti inequivocabili di attesa. La coppia quindi è una sorta di prefigurazione potentemente mitica della famiglia.
Probabilmente la scena presenta un’infrazione temporale: i personaggi, che rappresentano gli eventi della vita di tutti i giorni di una famiglia ‘normale’, si dislocano l’uno accanto all’altro in un unico spazio espositivo, che ne assicura la simultaneità, come se il tempo fosse un eterno presente. Nel senso che le figure altre rispetto alle due principali (il ragazzo e la ragazza) non sono attuali, cioè contemporanee a queste, ma sono in qualche modo evocate dallo stesso avvenire della coppia! Insomma, l’intera immagine, così come noi la vediamo non è che il materializzarsi dei pensieri dei due ragazzi, delle loro speranze, del loro desiderio di formarsi una famiglia, di essere una famiglia, numerosa, affiatata, libera.
Gli archetipi sono Mario Sironi e Anselmo Bucci. L’immagine di famiglia che essi elaborano tra gli anni Venti e gli anni Trenta è quanto di più lontano si possa immaginare dalle immagini della propaganda. A Luciano Ricchetti e a Donato Frisia dobbiamo due dipinti, peraltro di ottima qualità, presentati al premio Cremona nel 1938 e nel 1939 (In ascolto e Discorso della proclamazione dell’Impero ascoltato dalla mia famiglia), in cui la famiglia italiana della fine degli anni trenta è la famiglia fascista, microcosmo sociale che assorbe e rilancia i valori ‘portanti’ dell’epoca, la disciplina, la laboriosità, l’appartenenza e il volontarismo (i primi due mutuati dallo Stato liberale). Sironi e Bucci, al contrario, disegnano un modello familiare pericolosamente (per il regime) vicino ad uno stato di natura.
In ultimo, va sottolineato che il quadro appare la realizzazione più compiuta del programma di Novecento ed in particolare di Margherita Sarfatti. L’arte figurativa deve essere al tempo stesso di massa ed elitaria. Pertanto, sarà da un lato ‘chiara’, perfettamente leggibile nelle sue componenti più visibili, dall’altro sarà un sistema chiuso di rimandi testuali, adatto ad eccitare la fantasia di un pubblico medio alto.
De Chirico, Sironi, Bucci sono quindi i modelli per così dire di fondo del quadro di Dyalma Stultus. Il che non toglie che per taluni dettagli l’artefice abbia selezionato modelli particolari. Questo discorso riguarda principalmente le zucche in basso a sinistra e il ponte in alto a destra.
L’origine del ponte è duplice. Da un lato deriva da precedenti figurativi. Dall’altro esibisce ascendenze letterarie. L’archetipo figurativo è senza dubbio Donna seduta e paesaggio (La malinconia) di Sironi. Dall’altro va ricordato che soltanto due anni prima, e quindi nel 1936, usciva da Mondadori un romanzo di Lucio D’Ambra, La sosta sul ponte. È un testo fluviale, nel quale spicca la descrizione del contrasto stridente tra i giovani andati al fronte a combattere contro gli imperi centrali e la massa degli altri, di tutti quelli rimasti a casa, indifferenti, più o meno coscientemente e tuttavia colpevolmente indifferenti (pp. 59-60). Il titolo del quadro è pressoché identico al titolo del romanzo, ma altri due indizi corroborano l’ipotesi che sta prendendo corpo. Si tratta di dettagli biografici: intanto, la condizione di figlio naturale dell’uomo Dyalma Stultus ricorda la condizione analoga di Sisto Bibiena giovane, figlio ‘illegittimo’ del direttore d’orchestra e di Rosalba Casarsa. Inoltre, in un appunto autobiografico l’artista ricorda di essere stato incline a coltivare la musica.
Le zucche che affollano il dipinto di Stultus echeggiano una celebre zucca, pesante circa settanta chilogrammi, rinvenuta a Pisa e ritratta da Bartolomeo Bimbi (Settignano 1648 – Firenze 1729, pittore della cerchia di Cosimo III, specializzato nel riprodurre aspetti e oggetti della natura caratteristici e capricciosi). Il quadro, un olio su tela, è custodito nel Museo Botanico di Firenze: probabilmente Stultus lo vide nel corso del suo primo soggiorno fiorentino del 1927-1928. In realtà, la zucca era anche il simbolo di una Accademia di dotti attiva e nota nella Firenze del tardo Cinquecento, l’Accademia degli Intronati.
Nicola Troiani
debiti iconografici
1 fotografia di Monica Andresini, 9 novembre 2017. andresinimonica@gmail.com
2 fotografia di Monica Andresini, 9 novembre 2017. andresinimonica@gmail.com
3 Dyalma Stultus, Sala comunale d’arte di palazzo Costanzi, Trieste / aprile-maggio 1980. (Riappare in b/n in Azienda autonoma di Turismo di Firenze, Omaggio a Dyalma Stultus. Quindici dipinti eseguiti dal 1925 al 1960, Loggia de’ Rucellai / Firenze 7-24 maggio 1981).
4 https://www.google.com/search?q=l%27incertezza+del+poeta+wikipedia&client=firefox-b-d&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=2ahUKEwjXj9vFno_4AhVAR_EDHe2rBCoQ_AUoAXoECAEQAw&biw=1920&bih=899&dpr=1#imgrc=QNKSIiHtgbVzqM
5 “Enigma di un pomeriggio d’autunno” è un dipinto del 1910; fu la prima opera metafisica ad essere esposta al Salon d’Automne di Parigi del 1912.
Osservando il quadro riconosciamo Piazza Santa Croce di Firenze, anche se la chiesa è raffigurata con estrema semplificazione. Inoltre, invece delle porte troviamo delle tende, caratteristiche del tempio greco.
Al posto della statua di Dante, che nella realtà si trova sulla sinistra, ne troviamo una senza testa, sulla destra. Essa esprime la condizione di non-sapere dell’uomo.
Vicino alla statua troviamo due figure: il poeta e il filosofo, frequenti nelle opere di De Chirico. Leopardi è il poeta prediletto, il quale si perde nel tempo e, come il filosofo, viaggia alla ricerca di nuovi significati; naufraga dolcemente nel misterioso mare dell’Essere, esattamente come gli Argonauti, evocati dalla vela bianca, navigavano alla conquista del vello d’oro, simbolo degli ideali.
La ricerca del Senso, questa tensione perpetua è dunque un bisogno dell’uomo, immerso nell’immenso non-senso della vita».
Testo a cura di Maria Chiara Pernici STAFF Il Cappello di Irma
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«In un limpido pomeriggio autunnale – scrive De Chirico nelle Memorie – ero seduto su una panca al centro di piazza Santa Croce a Firenze». In realtà, il giovane era «appena uscito da una lunga e dolorosa malattia». Nell’osservare la piazza, la facciata della basilica e la statua di Dante, colpite dal «caldo sole autunnale», ebbe l’impressione di «guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si rivelò all’occhio della sua mente».
6 Foto Giacomo Brogi.
https://www.google.com/search?q=de+chirico+piazza+santa+croce&client=firefox-b-d&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=2ahUKEwjXq66On4_4AhUzSfEDHf1VAUkQ_AUoAXoECAEQAw&biw=958&bih=893&dpr=1#imgrc=qvC4JEBwIBpzvM
7 https://www.lombardiabeniculturali.it/opere-arte/schede/2p100-01075/
8 Mario Sironi 1885-1961, Electa, Milano 1993, catalogo della mostra Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 9 dicembre – 27 febbraio 1994.
Sironi, sintesi e grandiosità. Un profilo, in Mario Sironi. sintesi e grandiosità, a c. di E. Pontiggia e A. M. Montaldo, Ilisso, Nuoro 2021, catalogo della mostra Milano, Museo del Novecento, 23 luglio 2021 – 31 marzo 2022.
9 https://www.google.com/search?q=anselmo+bucci+opere&client=firefox-b-d&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=2ahUKEwjzysm7mKHyAhVKgP0HHS2eACMQ_AUoAXoECAEQAw&biw=948&bih=901#imgrc=ae56ZpDlVovU5M&imgdii=Eu99wXuipxCynM
10 https://galleriadelloscudo.com/wp-content/uploads/2020/04/Malinconia-1928-810×1080.jpg
11 http://www.artapartofculture.net/2014/05/04/anche-questa-e-cultura-sulle-polemiche-tra-rai-e-dieta-mediterranea-di-barbara-martusciello/bartolomeo-bimbi-xviii-sec-la-zucca-museo-botanico-firenze/
12 http://repertoriogalileochini.it/opera-galileo-chini.asp?id=1803&titolo=Natura%20morta%20con%20zucche
Molto bello questo ampio ed esauriente articolo che finalmente parla dell’artista Dyalma Stultus, inserendolo nel contesto geopolitico, storico e culturale del suo tempo, partendo da uno studio approfondito di Trieste, dell’alto Adriatico, per portarci poi alla scoperta di Stultus, uomo e artista, e ai suoi contemporanei.