La cognizione di Laura

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Bronzino, Ritratto di Laura Battiferra, olio su tavola, 83×60 cm, Firenze, Palazzo Vecchio.

Il quadro del Bronzino (o Agnolo di Cosimo, Firenze, 17 novembre 1503 – 23 novembre 1573, da non confondere con Alessandro Allori, suo allievo, anch’egli detto il Bronzino) che rappresenta Laura Battiferra (Urbino 1523 – Firenze 1589) è un olio su tavola di 83×60 cm. Sicuramente esso è successivo al 1550, anno in cui Laura sposa in seconde nozze Bartolomeo Ammannati (1511-1592), scultore ed architetto della cerchia di Michelangelo e di Cosimo I, dopo la morte di Vittorio Sereni, musico bolognese: il nuovo matrimonio la introduce nel più esclusivo ambiente fiorentino. Il quadro è custodito a Firenze (Palazzo Vecchio) e fa parte del fondo Loeser, un gruppo di circa trenta dipinti che Charles Alexander Loeser, collezionista e storico dell’arte americano (1864-1928) dona alla città per testamento: il lascito è solo uno dei tanti con cui persone di tutto il mondo hanno testimoniato il loro attaccamento a Firenze.

La poetessa viene ripresa in una particolare postura: il busto e i fianchi sono raffigurati di tre quarti, il volto invece è rigorosamente di profilo. Indossa un ampio abito di morbido velluto nero con fugaci riflessi cremisi, un velo trasparente discende dal frontino fin sul largo soggolo anch’esso bianco. La mano destra sorregge un libro aperto, stringendone il bordo superiore, l’indice e il medio della sinistra si poggiano sulla pagina a destra (è il recto del foglio). L’abbagliante candore del soggolo plissé è ravvivato da un’esile collana d’oro e da un fermaglio anch’esso d’oro: assieme alla vera dell’anulare – completa del venturoso carbonchio – sono i soli gioielli che sfoggia Laura.

La poetessa mostra all’osservatore il profilo sinistro del volto, che spicca sul collo lungo e sottile: il mento prominente, il naso leggermente aquilino, le labbra strette dagli angoli tendenti vero il basso, la fronte alta e bombata, le arcate sopraciliari piene secondo l’ultima moda spagnola (le sopracciglia rasate come quella di Monna Lisa sono alla francese) conferiscono all’espressione distacco e volitività al tempo stesso. Il pallore del volto e delle mani, nonché del libro, contrasta con l’abito e con lo sfondo e rima col lucore del soggolo, ma anche degli sbuffi delle maniche: altera, quasi sdegnosa, Laura Battiferra è – oltre le apparenze – una donna bellissima, la cui compita e diafana beltà è vie più esaltata dallo splendore del quadro. Ella non sta leggendo, in realtà sta solo mostrando il libro, che è un petrarchino, ossia un’edizione tascabile del Canzoniere di Francesco Petrarca: benché tascabile, il libro è estremamente prezioso, infatti è un manoscritto in cui i sonetti compaiono a tutta pagina con un nitore ed una leggibilità che avrebbe piacevolmente sorpreso lo stesso Autore. Più in particolare, il libro è aperto ai sonetti LXIV (Se voi poteste per turbati segni) e CCXL (I’ò pregato Amor, e ’l ne riprego), assai distanti tra loro, sebbene appartenenti entrambi alla prima sezione delle Rime (in vita di Madonna Laura). E questo è il primo problema che ci pone il ritratto. Andrea Del Sarto aveva già ritratto una fanciulla intenta a leggere le rime di Petrarca. Il quadro, della seconda metà degli anni Venti, è un olio su tavola custodito agli Uffizi. In questo caso però la facciata del libro che la giovane esibisce contiene due sonetti disposti regolarmente (in regular sequence). Inoltre, che Laura sia stata rappresentata con il naso aquilino per somigliarla a Dante è – francamente – un po’ improbabile. L’idealizzazione non escludeva un minimo di affinità tra il soggetto e l’immagine: mi chiedo quale reazione avrebbe avuto Laura Battiferra nello scoprirsi proprietaria di un naso estraneo. Però è incontestabile che la struttura del suo ritratto ricalchi la struttura del ritratto di Dante, anch’esso opera di Bronzino (è un olio su tela di 130×136 cm, dei primi anni 30, conservato agli Uffizi). Infatti, sia la poetessa del 500 che il suo più prestigioso collega del 2/300 sono raffigurati mentre offrono alla vista dei testi letterari, le Rime di Petrarca e la Divina Commedia. Gli sguardi sono ispirati, ma Laura è rivolta a sinistra, Dante a destra, verso il fondo del quadro, dove si staglia la montagna del Purgatorio. E mentre i due sonetti di Petrarca sono lontani tra loro nel testo originale, le terzine di Dante sono trascritte senza interruzione.

A prima vista nel quadro non compare l’alloro. In realtà, è sufficiente una visione appena un po’ più attenta del consueto per rilevare la sua presenza. Nel margine inferiore sinistro del quadro, al di sotto del libro, si possono distinguere due strisce di tessuto segna pagine (riprova, se ce ne fosse bisogno, che la funzione di segnare le pagine non è affidata alle dita di Laura!). Accanto, in stampatello maiuscolo, la firma dell’artefice, Bronzino. E un po’ più a destra ben due «ceppaie» di alloro in verde chiaro su fondo verde scuro: è noto che l’alloro si sviluppa dal basso in forma di ciuffi di foglie, chiamati, appunto, «ceppaie»: è evidente che la trasformazione è ancora molto al di là dal verificarsi! D’altronde, non può sfuggire la callida iunctura firma/alloro.

Ed ecco i due sonetti di Petrarca rappresentati nel quadro di Bronzino:

«Se voi poteste per turbati segni,

per chinar gli occhi, o per piegar la testa,

o per esser piú d’altra al fuggir presta,

torcendo ’l viso a’ preghi honesti et degni,

            uscir già mai, over per altri ingegni,

del petto ove dal primo lauro innesta

Amor piú rami, i’ direi ben che questa

fosse giusta cagione a’ vostri sdegni:

            ché gentil pianta in arido terreno

par che si disconvenga, et però lieta

naturalmente quindi si diparte;

            ma poi vostro destino a voi pur vieta

l’esser altrove, provedete almeno

di non star sempre in odïosa parte».

«I’ ò pregato Amor, e ’l ne riprego,

che mi scusi appo voi, dolce mia pena,

amaro mio dilecto, se con piena

fede dal dritto mio sentier mi piego.

            I’ nol posso negar, donna, et nol nego,

che la ragion, ch’ogni bona alma affrena,

non sia dal voler vinta; ond’ei mi mena

talor in parte ov’io per forza il sego.

            Voi, con quel cor, che di sí chiaro ingegno,

di sí alta vertute il cielo alluma,

quanto mai piovve da benigna stella,

            devete dir, pietosa et senza sdegno:

Che pò questi altro? il mio volto il consuma:

ei perché ingordo, et io perché sí bella?».

Il primo dei due sonetti è imperniato sulla negazione: Petrarca arriva a ipotizzare la fine (un po’ precoce a dir il vero) del suo amore per Laura. Il secondo sonetto invece è imperniato sull’affermazione: il suo amore per Laura è incrollabile perché alimentato dalla sua bellezza). E tra i due testi c’è pure un elemento in comune: entrambi si concludono con la speranza nella benignità di Laura. I due sonetti che appaiono distanti da tutti i punti di vista costituiscono in realtà un dittico, ossia un unico testo organico in due momenti. Perché allora il Bronzino ci rappresenta Laura Battiferri intenta a leggere di tutto il Canzoniere proprio questi due testi? Che cosa intende suggerirci?

Che Laura Battiferri sia stata una esponente di spicco del petrarchismo, è noto. Ed è acclarato che il petrarchismo ‘migliore’ fu quello coltivato dalle poetesse. Probabilmente, da questo angolo di visuale, la storia del 500 è da riscrivere. Bronzino, tuttavia, ha l’aria di suggerire un’altra spiegazione. Che Laura Battiferri non è solo poetessa, ma anche lettrice di Petrarca, partecipe, attenta, al punto da intuire il rapporto tematico ‘nascosto’ tra due sonetti ‘distanti’. Il che equivale a dire che in fondo è lei il primo vero critico della letteratura italiana!

La spiegazione è accettabile. Ma non soddisfacente. Infatti, ci si può domandare perché di tante ‘connessioni’, più o meno nascoste nel Canzoniere, il Bronzino abbia scelto proprio questa, in verità alquanto problematica.

Bronzino, Cosimo I come Orfeo, olio su tavola, 93,72×76,45 cm, Philadelphia, Museum of Art.

Nella vulgata la fioritura delle poetesse (a parte Laura, in ordine alfabetico Vittoria Colonna, Tullia d’Aragona, Veronica Gambara, Isabella Morra e la più grande di tutte, Gaspara Stampa) nel secolo XVI (un fenomeno inedito, per ritrovarlo occorrerà attendere il XX secolo) è inglobato nel petrarchismo da un lato, dall’altro nella realtà delle corti italiane. Nel 1995 a Napoli Romeo De Maio (1928-2018) pubblica un libro, Donna e Rinascimento. L’inizio della rivoluzione, in cui sostiene che il Rinascimento è in realtà opera femminile, di Vittoria Colonna non meno che di Michelangelo: non è casuale che il libro, un ponderoso studio di poco meno che quattrocento pagine, sia dedicato alle sue «allieve». Così, l’idea di sparute poetesse sostanzialmente disoccupate, nel migliore dei casi imitatrici dei fortunati colleghi maschi, ha cominciato a perdere terreno.

Per liquefarsi quando Victoria Kirkham, in Pennsylvania, ha pubblicato uno studio risolutivo su Laura Battiferra (appunto Laura Battiferra and her Literary Circle: an Anthology, citato); da cui traspare che la poetessa non è una produttrice di poesie, ma il perno di una impresa culturale a cui i sonetti e i madrigali (assieme, naturalmente, alle lettere) servono per creare un sistema di relazioni, che coinvolge Benedetto Varchi Annibal Caro Bernardo Tasso Benvenuto Cellini il Lasca ed il Bronzino, Pietro Vettori Giovan Battista Strozzi Vincenzio Grotti Gherardo Spini, fino a esponenti delle case regnanti d’Europa da Bloody Mary a Filippo II e Paolo III, nonché padre Claudio Acquaviva generale dei gesuiti, senza dimenticare Bianca Capello: come si vede, quanto di più lontano dall’immagine ottocentesca della povera cortigiana innamorata invano del signore. In questo caso specifico si tratta di una impresa familiare, nel senso che a beneficiare della rete di relazioni creata da Laura Battiferra coi propri versi è anche (non certo principalmente) Bartolomeo Ammannati. Ed è intuitivo che le liriche «encomiastiche», lungi dall’essere oziosi esercizi letterari, funzionano come oggi funziona il sistema del feedback, che noi però adoperiamo generalmente gratis.

Andrea Del Sarto, Ritratto di giovane donna che legge un libro, olio su tavola, 1528, Uffizi. «La dama indica la pagina con i sonetti n. 153 “Ite caldi sospiri al freddo core” e n. 154 “Le stelle, il cielo e gli elementi a prova”. I due testi rimandano il primo alla inquietudine dei sentimenti amorosi, il secondo all’esaltazione della bellezza della donna amata, di cui si evocano i begli occhi e l’intensità dello sguardo» (Anna Bisceglia).

Gli affreschi di Pontormo in San Lorenzo – a cui collabora Bronzino – sono decisamente eterodossi: non solo manca l’Inferno, ma addirittura la scena della creazione di Eva è immediatamente al di sotto del Cristo in gloria. L’occhiuto Cosimo I lo lasciò libero di esprimersi. Infatti in quel torno di tempo (anni 40/50) il Duca di Firenze si stava avvicinando alla Lega (ma solo per alzare la posta con Roma, insomma per farsi riconoscere Granduca – grado che comportava prerogative quasi regali –, senza peraltro incrementare l’ingerenza di Carlo V negli affari italiani). Gli affreschi sopravvissero alla manovra. Saranno scancellati, a quanto pare definitivamente (scialbati), soltanto nel 700. A causa, come è stato acclarato, di un banale lavoro di ‘restauro’.

In realtà, dovettero la loro sopravvivenza a Vasari, che mise in giro la voce della pazzia di Pontormo. Ed in effetti, i suoi strani rituali, le sue manie/fobie blindarono in qualche modo la sua stessa opera (quindi non solo gli affreschi di San Lorenzo). Le loro anomalie (una Deposizione che viene verso lo spettatore, una Sacra Conversazione così animata che l’occhio di chi guarda non sa dove posarsi) parvero derivare dalla follia, tutta da compatire, del loro creatore.

Bronzino si forma alla scuola del Pontormo. Ne assorbe il metodo. Cioè la sintesi di rigore ed anticonformismo.

La pratica dell’identificarsi in una o più figure della storia è radicata nella Firenze del XVI secolo. Da un certo punto di vista la storia di Michelangelo è anche la storia del suo identificarsi, via via, con figure di primo piano del cristianesimo e dell’ebraismo, come Mosè e Nicodemo, ma soprattutto san Bartolomeo e Dante. Come Mosè, anch’egli guida l’umanità verso la «salvazione» (Inf II 30), ma come Nicodemo è costretto a celare la propria fede più autentica e più profonda.

Se l’identificarsi in san Bartolomeo gli assicura il martirio e la rigenerazione, è l’identificarsi in Dante («foss’io pur lui!») che gli garantirà l’«elezïone» (Inf II 28). Nel canzoniere ‘privato’ di Michelangelo emergono alcuni temi che confortano questa tesi. Intanto, il suo ostinato permanere a Roma con conseguente trasformazione di tale permanenza in esilio, esilio causato dalla tirannia di Cosimo (che tenta di riaverlo invano e invia alcuni ‘agenti’ come il Tribolo, Cellini, Vasari). Inoltre, la creazione di una propria Beatrice (Vittoria Colonna). Su tutto aleggia il tema della ‘missione’. Il poema di Michelangelo è composto di immagini, come ad esempio la cappella Sistina che è (Calvesi) una ricostruzione rigorosa, e quasi ‘filologica’ degli interni e dell’esterno del tempio di Salomone.

D’altronde, lo stesso Bartolomeo Ammannati è detto spesso dalla moglie «Fidia». Non deve quindi stupire che il ritratto di Laura Battiferra sia al centro di un gioco un po’ complicato – e tuttavia mondano, se rapportato a Michelangelo – di identificazioni. Intanto, la donna del ritratto, in quanto Laura, è Dafne e al tempo stesso Laura de Noves, mentre Bronzino come poeta è reincarnazione di Petrarca (o addirittura Apollo), come pittore di Simone Martini, archetipo, ben più di Giotto, dell’artista moderno «colto».

Di primo acchito si è portati a pensare che il mito della reincarnazione provenga dal mondo classico (Platone). In realtà, esso sembra affiorare di tanto in tanto nelle Scritture, ed in particolare nei Vangeli. In mt 17 9-13 Gesù risponde a una domanda dei tre discepoli che lo hanno seguito sul monte della Trasfigurazione, Pietro, Giovanni e Giacomo («Perché gli scribi sostengono che prima verrà Elia?»): «Elia – dice Gesù – è già venuto e non lo hanno riconosciuto». «Allora, chiosa Matteo, essi compresero che aveva parlato di Giovanni Battista»: la Trasfigurazione è l’episodio forse più inquietante del racconto evangelico. Altrove Elia sembra reincarnato nello stesso Gesù. «Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”» (mc 8 27-29). Del resto Elia (2Re 2, 1-13) non è mai morto. E invano il discepolo Eliseo tenta di diventare Elia almeno per due terzi: non riesce a guardarlo fino al momento estremo in cui Elia è rapito da Dio, per cui si deve accontentare del suo mantello. La profezia a cui alludono gli scribi circa il ritorno di Elia «prima che arrivi il giorno del Signore» è in Malachia 3, 23-24.

Appare quasi scontato, pertanto, che l’identificazione non fosse un semplice esercizio intellettuale, ma qualcosa di più, di molto più profondo. L’identificazione è una forma di reincarnazione. In base a tutto ciò il quadro del Bronzino assume una luce nuova.

Ma forse c’è un’altra componente da mettere in evidenza. Nei due sonetti a Simone Martini, Petrarca, respinto sempre da Laura, la sostituisce, o prova a sostituirla, proprio con il ritratto di lei realizzato dietro sua richiesta dall’amico pittore: l’incanto, tuttavia, si rompe quando Petrarca si avvede che all’immagine manca la parola. La delusione dell’innamorato è dolorosa, ma salutare: i (labili) confini tra il sogno e la realtà sono ripristinati; il che non avverrà molto spesso nella storia futura del Cinquecento e dei secoli successivi fino a noialtri.

L’idea che un’immagine possa prendere vita è molto antica e diffusa. Ad innervarla nella cultura del 500 è Ovidio, col rilanciare il mito di Pigmalione (Metamorfosi, X, 243-297 → «Pigmalion, quanto lodar ti dêi De l’immagine tua, se mille volte N’avesti quel ch’i’ sol una vorrei»).

Così, quelle dei principi, nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo non sono statue, ma «anime», «idee» («Non ha l’ottimo artista alcun concetto Ch’un marmo solo in sé non circoscriva»). E il Cristo del Giudizio Finale è in realtà il Corpus Christi che si offre agli uomini per una particolare communio, la manducatio de visu o manducatio per visum. La condizione irrinunciabile è che l’immagine deve essere bella e quindi in primo luogo perfetta: ecco perché il ritratto di Laura Battiferra è così bello, assurdamente bello, da sconfinare nella frigidità. Da questo punto di vista l’arte non è – semplicemente – imitazione della natura, ma molto, molto di più: l’arte può sostituirsi alla natura e dunque può correggerla, giungendo a realizzare tutto quello che la natura stessa non è capace di realizzare.

Naturalmente, si può prescindere dal requisito della qualità se si dispone di una risorsa imbattibile come la magia. Caterina de’ Medici seguiva con attenzione le indicazioni di un mago. E Benvenuto Cellini in una pagina trash dell’autobiografia, attesta la diffusione della magia tra i preti. Non si trattava di superstizione, bensì di vere e proprie pratiche, anche ‘sataniche’, volte costringere le «stelle» e le potenze oscure a deviare dal loro corso ‘normale’ e ad assoggettarsi agli uomini, che dovrebbero essere i «figli della luce». Ed è superfluo aggiungere che la figura ‘professionale’ più vicina al mondo dell’occulto è proprio la figura del poeta e dell’artista. Virgilio, nel medio evo, è soprattutto un mago, buono o cattivo secondo i casi e le esigenze. E rilevante, secondo Giulio Camillo, il ruolo della magia sia nella mnemotecnica, che – quindi – nel teatro, e finalmente nella Commedia dell’Arte. Ed è nel 500, soprattutto a Venezia e a Firenze, che prende voga la compagnia teatrale, e quindi le figure professionali dell’attore e dell’attrice: Vittoria Piissimi, Vincenza Armani e soprattutto Isabella Andreini riscuotono un successo straordinario, tuttora, a distanza di cinque secoli, memorabile. Ebbene, chi meglio di un attore o di un’attrice è in grado di identificarsi (e di incarnarsi!) in un’altra persona?

Adesso potremmo anche abbozzare una risposta alla domanda da cui siamo partiti: perché il petrarchino di Laura mostra i sonetti 64 e 240? A differenza del povero Petrarca, che si dovette accontentare dell’immagine dell’amata, bella al pari di lei, ma senza vita; Bronzino realizza un ritratto perfettamente in grado di prender vita. Il mio amore per voi (sonetto 64) è così grande, così profondo che non potete uscire dalla mia mente. E questo amore (sonetto 240) è un effetto della vostra bellezza, per cui vi chiedo d’essere pietosa nei miei riguardi. Insomma, la nuova Laura vivrà, per sempre, nella mente del nuovo amante e artefice. Il sogno del poeta innamorato sta per concretizzarsi.

Al solito, l’analisi del testo è illuminante: la «gentil pianta» che fiorisce in 64/9 diventa la «gentil donna» che allieta il mondo sublunare in 77/6, mentre la donna «humile» di 78/7 si fa «pietosa et senza sdegno» in 240/12. Inoltre, l’«odiosa parte» di 64/14 richiama il «mortal velo» del verso corrispondente del sonetto 77; e la «benigna stella» di 240/11 echeggia l’avverbio «benignamente» di 78/10! Laura de Noves abita in «paradiso»: è lì che Simone Martini la vede e la ritrae (77/5): anche la nuova Laura viene dal cielo (240/11: il «cor», l’«ingegno» e la «virtute» dei vv. 9-10 articolata sineddoche per indicare la persona di Laura nella sua interezza). Bronzino non poteva riuscire più chiaro e allo stesso tempo più elusivo, la sua operazione è un capolavoro di discrezione e insieme di spericolatezza. Dobbiamo ricordare che l’autore dei versi è pur sempre Petrarca e che a dipingerli è appunto il Bronzino. Orbene, dei 366 componimenti del Canzoniere, Bronzino ha scelto due – forse gli unici due! – che in qualche modo riprendono e correggono – aggiungerei dall’interno, in quanto facenti parte del medesimo macrotesto – i due sonetti per Simone Martini.

Bronzino, Ritratto di Dante, olio su tela di 130×136 cm, primi anni 30, Uffizi. Il libro è la Divina Commedia aperta al canto XXV del Paradiso, vv. 1-48.

RVF LXXVII e LXXVIII

«Per mirar Policleto a prova fiso

con gli altri ch’ebber fama di quell’arte

mill’anni, non vedrian la minor parte

de la beltà che m’ave il cor conquiso.

            Ma certo il mio Simon fu in paradiso

(onde questa gentil donna si parte),

ivi la vide, et la ritrasse in carte

per far fede qua giù del suo bel viso.

            L’opra fu ben di quelle che nel cielo

si ponno imaginar, non qui tra noi,

ove le membra fanno a l’alma velo.

            Cortesia fe’; né la potea far poi

che fu disceso a provar caldo et gielo,

et del mortal sentiron gli occhi suoi».

«Quando giunse a Simon l’alto concetto

ch’a mio nome gli pose in man lo stile,

s’avesse dato a l’opera gentile

colla figura voce ed intellecto,

            di sospir’ molti mi sgombrava il petto,

che ciò ch’altri à più caro, a me fan vile:

però che ’n vista ella si mostra humile

promettendomi pace ne l’aspetto.

            Ma poi ch’i’ vengo a ragionar co·llei,

benignamente assai par che m’ascolte,

se risponder savesse a’ detti miei.

            Pigmalion, quanto lodar ti dêi

de l’imagine tua, se mille volte

n’avesti quel ch’i’ sol una vorrei».

Pontormo, Deposizione, tempera d’uovo su tavola, 313×192 cm, ca. 1526-1528, Firenze, Chiesa di Santa Felicita, Cappella Capponi.
Pontormo, Pala Pucci (Sacra Conversazione), olio su tavola, 214×195 cm, Firenze, San Michele Visdomini.
Pontormo, disegno preparatorio degli affreschi di San Lorenzo, Firenze, Uffizi, GDS.
Nelle pagine predenti: Michelangelo Buonarroti, Mosè, 1513-1515 e 1542, Roma, San Pietro in Vincoli.
Michelangelo Buonarroti, Nicodemo, Pietà Bandini, anni 40/50, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.
San Bartolomeo (particolare del Giudizio Finale).
 
Simone Martini, Allegoria della poesia, tempera e colori ad acqua su pergamena, 20×29,5 cm,
1340 ca., Milano, Biblioteca Ambrosiana. Il codice virgiliano di proprietà di Petrarca, decorato con questo bel ‘cammeo’ da Simone Martini, è tuttora visibile all’Ambrosiana. Simone rappresenta Virgilio seduto sotto un faggio mentre ‘riceve’ i propri personaggi, dal basso in senso antiorario osserviamo un pastore intento a mungere, un contadino che puta, e infine Enea e Servio, che – scostando la tenda – rivela la presenza del poeta, come del resto ricordano i quattro versi, opera del Petrarca, trascritti sui due cartigli: «ytala praeclaros tellus alis alma poetas; Sed tibi Graecorum dedit hic attingere metas; Servius altiloqui retegens arcana Maronis Ut pateant ducibus, pastoribus, atque colonis». I quattro esametri si possono tradurre come segue: «O terra italica tu generosa alimenti i più illustri poeti, ma a te concesse di raggiungere i traguardi dei Greci costui: svelando Servio gli arcani di Marone dall’elevato linguaggio, affinché siano noti ai condottieri ai pastori ai contadini» (cfr. Viaggi di Francesco Petrarca in Francia in Germania ed in Italia descritti dal Professore Ambrogio Levati, vol. I, Società tipografica de’ Classici Italiani, Milano 1820, p. 325, n. 2).
Jean-Léon Géróme, Pigmalione e Galatea, olio su tela, 88,9×68,5 cm, 1890, New York, Metropolitan Museum of Art. Si notino in fondo a destra, sulla cassapanca, due maschere, esplicita citazione delle due maschere che ammiriamo nel quadro di Bronzino, Venere e Cupido, in basso a destra. Lo specchio circolare poggiato accanto per terra ricorda invece quello anamorfico nel ritratto dei Due ambasciatori di Hans Holbein il Giovane (olio su tavola, 1533, Londra, National Gallery). I quadri sulla parete ne riecheggiano altri, aventi per soggetto la storia di Campaspe, schiava d’amore di Alessandro il Grande, e da questi donata ad Apelle che si era innamorato di lei mentre la ritraeva, versione più moderna, decisamente borghese, del mito di Pigmalione: il delizioso Giovan Battista Tiepolo, Alessandro e Campaspe nello studio di Apelle, olio su tela, 54×74 cm, 1725-1726, Montréal, Musée des Beaux-Arts,e Mattia Preti, Autoritratto nella parte di Apelle che dipinge Campaspe, olio su tela, collezione privata.
Bronzino, Allegoria con Venere e Cupido, olio su tavola, 146×116 cm, 1540- 45, Londra, National Gallery.
Michelangelo Buonarroti, Sagrestia Nuova, 1520-1533, Firenze, San Lorenzo.
Piero di Cosimo, Ritratto di Simonetta Cattaneo Vespucci, tempera su tavola, 57×42 cm, 1480 ca., Chantilly, Château de Chantilly, Musée Condé. Il pungente erotismo del dipinto non deve far trascurare un dettaglio prezioso: il quadro è intitolato SIMONETTA JANUENSIS VESPUCCIA. Januensis, lemma dantesco (VE I VIII 7), allude alle origini genovesi della famiglia Cattaneo, mentre Vespucci è il marito di Simonetta, Marco. Il cognome, cioè, è declinato al femminile (Vespuccia), esattamente come Battiferri diviene Battiferra se riferito a Laura, che appare appunto come Battiferra in un pregevole studio, in anticipo di più di un secolo sulle ricerche attuali, di A. Furno, La vita e le rime di Angiolo Bronzino, Flori, Pistoia 1902, p. 65; mentre Bronzino, p. 38, è detto anche Bronzini, naturalmente considerandolo quale esponente di un gruppo familiare).

Nicola Troiani
 

La cognizione di Laura – debiti iconografici
 
Bronzino, Ritratto di Laura Battiferra, olio su tavola, 83×60 cm, Firenze, Palazzo Vecchio.
https://it.wikipedia.org/wiki/Laura_Battiferri#/media/File:Laura_Battiferri_by_Angelo_Bronzino.jpg
 
Bronzino, Cosimo I come Orfeo, olio su tavola, 93,72×76,45 cm, Philadelphia, Museum of Art.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/48/Agnolo_Bronzino_-_Portrait_of_Cosimo_I_de%27_Medici_as_Orpheus_-_Google_Art_Project.jpg
 
Andrea Del Sarto, Ritratto di giovane donna che legge un libro, olio su tavola, 1528, Uffizi. «La dama indica la pagina con i sonetti n. 153 “Ite caldi sospiri al freddo core” e n. 154 “Le stelle, il cielo e gli elementi a prova”. I due testi rimandano il primo alla inquietudine dei sentimenti amorosi, il secondo all’esaltazione della bellezza della donna amata, di cui si evocano i begli occhi e l’intensità dello sguardo» (Anna Bisceglia).
https://www.uffizi.it/opere/giovane-donna-con-petrarchino#&gid=1&pid=1
 
Bronzino, Ritratto di Dante, olio su tela di 130×136 cm, primi anni 30, Uffizi. Il libro è la Divina Commedia aperta al canto XXV del Paradiso, vv. 1-48.
https://www.analisidellopera.it/ritratto-di-dante-alighieri-bronzino/
 
Pontormo, Deposizione, tempera d’uovo su tavola, 313×192 cm, ca. 1526-1528, Firenze, Chiesa di Santa Felicita, Cappella Capponi.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f2/Jacopo_Pontormo_-_Deposition_-_WGA18113.jpg
 
Pontormo, Pala Pucci (Sacra Conversazione), olio su tavola, 214×195 cm, Firenze, San Michele Visdomini.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b1/Jacopo_Pontormo_-_Madonna_and_Child_with_Saints_-_WGA18082.jpg
 
Pontormo, disegno preparatorio degli affreschi di San Lorenzo, Firenze, Uffizi, GDS.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/5e/Jacopo_Pontormo_-_Christ_the_Judge_with_the_Creation_of_Eve_-_WGA18134.jpg
 
Michelangelo Buonarroti, Mosè, 1513-1515 e 1542, Roma, San Pietro in Vincoli.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/1c/%27Moses%27_by_Michelangelo_JBU010.jpg
 
Michelangelo Buonarroti, Nicodemo, Pietà Bandini, anni 40/50, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/aa/Firenze_-_Museo_Opera_del_Duomo%2C_Piet%C3%A0_Bandini.jpg
 
San Bartolomeo (particolare del Giudizio Finale).
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/cf/Last_judgement.jpg
 
Simone Martini, Allegoria della poesia, tempera e colori ad acqua su pergamena, 20×29,5 cm, 1340 ca., Milano, Biblioteca Ambrosiana. Il codice virgiliano di proprietà di Petrarca, decorato con questo bel ‘cammeo’ da Simone Martini, è tuttora visibile all’Ambrosiana. Simone rappresenta Virgilio seduto sotto un faggio mentre ‘riceve’ i propri personaggi, dal basso in senso antiorario osserviamo un pastore intento a mungere, un contadino che puta, e infine Enea e Servio, che – scostando la tenda – rivela la presenza del poeta, come del resto ricordano i quattro versi, opera del Petrarca, trascritti sui due cartigli: «ytala praeclaros tellus alis alma poetas; Sed tibi Graecorum dedit hic attingere metas; Servius altiloqui retegens arcana Maronis Ut pateant ducibus, pastoribus, atque colonis». I quattro esametri si possono tradurre come segue: «O terra italica tu generosa alimenti i più illustri poeti, ma a te concesse di raggiungere i traguardi dei Greci costui: svelando Servio gli arcani di Marone dall’elevato linguaggio, affinché siano noti ai condottieri ai pastori ai contadini» (cfr. Viaggi di Francesco Petrarca in Francia in Germania ed in Italia descritti dal Professore Ambrogio Levati, vol. I, Società tipografica de’ Classici Italiani, Milano 1820, p. 325, n. 2).
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Jean-Léon Géróme, Pigmalione e Galatea, olio su tela, 88,9×68,5 cm, 1890, New York, Metropolitan Museum of Art. Si notino in fondo a destra, sulla cassapanca, due maschere, esplicita citazione delle due maschere che ammiriamo nel quadro di Bronzino, Venere e Cupido, in basso a destra. Lo specchio circolare poggiato accanto per terra ricorda invece quello anamorfico nel ritratto dei Due ambasciatori di Hans Holbein il Giovane (olio su tavola, 1533, Londra, National Gallery). I quadri sulla parete ne riecheggiano altri, aventi per soggetto la storia di Campaspe, schiava d’amore di Alessandro il Grande, e da questi donata ad Apelle che si era innamorato di lei mentre la ritraeva, versione più moderna, decisamente borghese del mito di Pigmalione: il delizioso Giovan Battista Tiepolo, Alessandro e Campaspe nello studio di Apelle, olio su tela, 54×74 cm, 1725-1726, Montréal, Musée des Beaux-Arts,e Mattia Preti, Autoritratto nella parte di Apelle che dipinge Campaspe, olio su tela, collezione privata.
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Bronzino, Allegoria con Venere e Cupido, olio su tavola, 146×116 cm, 1540- 45, Londra, National Gallery.
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Michelangelo Buonarroti, Sagrestia Nuova, 1520-1533, Firenze, San Lorenzo.
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Piero di Cosimo, Ritratto di Simonetta Cattaneo Vespucci, tempera su tavola, 57×42 cm, 1480 ca., Chantilly, Château de Chantilly, Musée Condé. Il pungente erotismo del dipinto non deve far trascurare un dettaglio prezioso: il quadro è intitolato SIMONETTA JANUENSIS VESPUCCIA. Januensis, lemma dantesco (VE I VIII 7), allude alle origini genovesi della famiglia Cattaneo, mentre Vespucci è il marito di Simonetta, Marco. Il cognome, cioè, è declinato al femminile (Vespuccia), esattamente come Battiferri diviene Battiferra se riferito a Laura, che appare come Laura Battiferra in un pregevole studio, in anticipo di più di un secolo sulle ricerche attuali, di A. Furno, La vita e le rime di Angiolo Bronzino, Pistoia 1902, p. 65, al pari di Bronzino, detto anche Bronzini, naturalmente intendendone i famigliari, p. 38).
https://it.wikipedia.org/wiki/Simonetta_Vespucci#/media/File:Piero_di_Cosimo_-_Portrait_de_femme_dit_de_Simonetta_Vespucci_-_Google_Art_Project.jpg

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