“Giorno del Ricordo”

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 “Mio buon Orazio, qual nome macchiato vivrà di me, se questi avvenimenti avessero a rimanere ignoti! Se m’hai tenuto nel tuo cuore, Orazio, … seguita su questo duro mondo a respirare ancora il tuo dolore per raccontare ad altri la mia storia” (William Shakespeare, “Amleto”)

“La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale” (legge 30 marzo 2004, n. 92).

Il 10 febbraio 1947, a Parigi, venivano firmati i trattati di Pace con i quali l’Istria, il Quarnaro, Zara e parte del territorio della Venezia Giulia furono assegnati alla Jugoslavia. Precedente l’annessione della Dalmazia. “La guerra è un controsenso della creazione” ha osservato nei giorni scorsi Papa Francesco. E un controsenso della creazione furono le violenze, gli eccidi di civili e militari italiani avvenuti sul confine nordorientale del Paese al termine e subito dopo la Seconda guerra mondiale, così come l’esodo, lo sradicamento e spaesamento che ne derivò per alcune centinaia di migliaia di istriani e dalmati.

Il “Giorno del Ricordo” è opportunità per far conoscere ai giovani una pagina a lungo rimossa della nostra storia nazionale e spiegare gli eventi nella prospettiva del periodo lungo del primo Novecento.

Nella duplice consapevolezza che non si comprende mai il presente se non si conosce il passato e che non bisogna mai usare il passato per giustificare il presente.

Che significa ricordare?

Pensatori di tutti i tempi hanno riflettuto sul significato della parola che, di per sé, può già costituire occasione di riflessione critica con gli studenti.

Riportare al cuore.

Ricordare è, implicitamente, narrare il passato. E la narrazione, per sua natura, risente della rielaborazione della storia. Questa rappresenta inevitabilmente il sovrapporsi, alla realtà accaduta, del sentire dei narratori. Un sentire che deve essere rigoroso.

Altra cosa dal relativismo soggettivo.

Raccontare criticamente le vicende accadute – lo esprime con angoscia Amleto – rende storia le stesse. Cioè ne impedisce l’oblio. Fuggire la conoscenza storica degli accadimenti, la loro condivisione, costituisce ostacolo alla costruzione di gruppi sociali consapevoli. Al contrario, narrare la storia consente che accadimenti che hanno sconvolto intere popolazioni divengano fondamento delle comunità umane successive.

Ma quale storia?

Non si tratta – suggerisce Bauman – di sacralizzare, da un lato, o banalizzare, dall’altro, le deportazioni, gli orrori, i genocidi. Non se ne riduce in tal modo il portato di violenza, perché si rischia di non comprenderne le radici.

Il “Giorno del Ricordo” e la conoscenza di quanto accaduto possono aiutare a comprendere che, in quel caso, la “categoria” umana che si voleva piegare e culturalmente nullificare era quella italiana.

Poco tempo prima era accaduto, su scala europea, alla “categoria” degli ebrei. Con una atroce volontà di annientamento, mai sperimentata prima nella storia dell’umanità.

Pochi decenni prima ancora era toccato alla “categoria” degli Armeni.

Eppoi? Sempre vicino a noi, negli anni novanta, vittima è stata la “categoria” dei mussulmani di Srebrenica…

Non serve proseguire. Allo sconvolgimento e all’empatia per le vittime deve dunque associarsi il tentativo di riflettere sugli effetti della riduzione etica delle persone umane a “categorie”, perciò stesse dis-umanizzate.

Ministero dell’Istruzione

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