Non è facile decidere cosa pubblicare e cosa no nell’ampio spettro dei terrificanti scatti che arrivano ogni giorno dall’Ucraina, spesso attraverso i social media.
In questi giorni passano davanti ai nostri occhi immagini terrificanti. Corpi straziati, mutilati, carbonizzati… dell’una e dell’altra parte. Militari e civili. È una macelleria. La guerra ai tempi dei social media è un corpo senza veli, nudo e crudo, a disposizione di chiunque lo voglia guardare. Niente di nuovo, per carità: le guerre, alla fine, sono tutte uguali. Orribili, da sempre. Tutte perfettamente riassunte in quella di Piero cantata da De André: due ragazzi con lo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore. E tanta, tanta paura su entrambi i fronti.
Lo spettacolo osceno dei corpi straziati dalle bombe o maciullati dai proiettili che dall’inizio di questa follia vediamo sui social, perlopiù ve lo risparmiamo. Fare giornalismo in situazioni come queste è anche decidere di tracciare la sottile linea rossa in quel territorio grigio che separa le immagini forti che sono utili per dare le dimensioni della tragedia che si sta compiendo da quella pornografia della morte che invece nulla aggiunge all’eterno non senso della guerra. Chi si vuol spingere oltre questo confine lo può facilmente fare, fuori di qui. Da una parte il video della granata che cade mentre i civili cercano di scappare da Irpin, periferia di Kiev, sterminando una famiglia che resta a terra, sullo sfondo. Dall’altra le immagini più ravvicinate, i corpi a terra, nel dettaglio. Non sono scelte facili e non esiste un “certamente giusto” né un “certamente sbagliato”. O meglio, forse esistono, ma il confine tra le due certezze è un’ampia zona di rispettabile incertezza.
Rispettabile, e infatti ci sono autorevolissime testate (a partire dal giornale dei giornali, il New York Times) che, proprio nello specifico, hanno fatto una scelta diversa, preferendo spingere un po’ più in là il limite del visibile, mostrando i poveri corpi a terra, esanimi, in una foto drammaticamente eloquente: così si muore in guerra, senza un perché, senza un preavviso. Un istante prima ci sei, vestito come noi, con un trolley come i nostri, una famiglia come quelle che incrociamo ogni giorno nelle nostre strade. Un istante dopo non c’è più nulla.
Poi c’è Kirill Yatsko, un angelo di 18 mesi. 4 foto raccontano la sua tragedia e quella dei suoi giovani genitori nella martoriata città di Mariupol. Nel primo scatto papà Fedor entra disperato in ospedale, in braccio stringe Kirill completamente avvolto in una coperta azzurra macchiata di sangue, spuntano solo le piccole mani e i piedi nei calzini blu scuro con le punte grigie. Dietro li rincorre mamma Marina, con la maglia sporca di sangue e il volto trasfigurato. Nel secondo Kirill è steso su un tavolo operatorio improvvisato con le mani di 5 medici intorno che tentano di salvargli la vita. La terza è una pietà rubata da una porta socchiusa: Marina seduta, disperata, Fedor ai suoi piedi, la testa nascosta nei suoi capelli, le tiene le mani. Infine la disperazione nera dell’ultimo scatto, gli sforzi per salvare il piccolo Kirill sono stati vani, il suo corpo senza vita giace su una barella di metallo, completamente avvolto nella coperta azzurra. Marina è china su di lui e lo accarezza, in un ultimo atto di estremo affetto. Fedor, in piedi, di spalle, si tiene la faccia tra le mani.
E’ una sequenza che – pur senza essere mai esplicita – porta con sé un carico di dolore insostenibile. Abbiamo scelto di pubblicarla (risparmiando lo scatto del tavolo operatorio) perché è l’emblema della follia di una guerra: la morte del più innocente tra gli innocenti e la disperazione dei suoi genitori. Il nostro è il tentativo, certamente ingenuo, di dare a questo sacrificio una missione superiore: quella di smuovere le coscienze di chi ha gli strumenti per interrompere immediatamente questa guerra. Folle e inutile come tutte le guerre.
Rai News