Un quadro, anche di dimensioni considerevoli, si può abbracciare con un unico sguardo, o, se si preferisce, un solo colpo d’occhio.
Un testo letterario, invece, ha bisogno di tempo per essere acquisito: infatti, le parole, che sono i suoi elementi costitutivi, si possono disporre soltanto in successione, le une accanto alle altre.
È stato Marinetti, indotto da Boccioni, a tentare di trasferire la simultaneità in un testo verbale: il risultato è un quadro piuttosto che una pagina scritta, e un quadro ben più vivo di quegli algidi «calligrammi» che vedranno la luce pochi anni più tardi.
È singolare che Leonardo, nel Paragone (proprio tra la pittura e la poesia) non abbia preso in considerazione questa diversità.
In realtà, il Paragone è dedicato ai moduli espressivi della pittura e della poesia in relazione ai loro oggetti di rappresentazione.
Come si può intuire, si tratta di una mancanza non trascurabile.
D’altronde, è sufficiente addentrarsi nel testo del Paragone (che occupa l’intero primo libro del trattato di Leonardo) per imbattersi in un confronto altamente istruttivo e suggestivo, quello tra la pittura e la musica: la musica, scrive Leonardo, a differenza della pittura, scompare a mano a mano che la si produce (e la musica scritta, ovvero ‘registrata’ è altra cosa rispetto a quella ‘live’).
Insomma, il paragone tra la poesia e la musica è affrontato proprio sul piano della destinazione del testo.
Pertanto, è ampiamente credibile che Leonardo avrebbe integrato il Paragone (tra la pittura e la poesia) andando in questa direzione e quindi elaborando il contrasto tra successione temporale delle parole e simultaneità delle immagini.
Somnium Veneris
Venere addormentata è un olio su tela. Databile tra il 1507 e il 1510. È custodito a Dresda, nella Gemäldegalerie Alte Meister: scampò al terribile bombardamento effettuato dagli alleati fra il 13 e il 15 febbraio 1945 e successivamente alla piena dell’Elba dell’agosto 2002.
Venere è dolcemente addormentata su un letto che si indovina soffice e tiepido. Descritto in questo modo, il soggetto del quadro appare decisamente ‘normale’. In realtà, poco al di sotto della superficie figurativa affiorano diverse contraddizioni. Intanto, Venere è a letto (su un letto improvvisato), completamente nuda, ma al tempo stesso è all’aperto, il suo corpo meraviglioso è adagiato su un candido lenzuolo che a sua volta è poggiato per terra su un manto erboso, ed è esposto all’aria. Se vogliamo sottilizzare, il paesaggio che circonda la dea addormentata è un bel paesaggio chiaro e diurno, anziché buio e notturno come forse dovrebbe essere. D’altronde, il sonno e l’abbandono che ne consegue non impedisce a Venere di coprirsi la vulva con la mano sinistra. E ancora: il paesaggio è avvolto nella caligine estiva, ma i toni di colore sono autunnali. Insomma, non solo la figura stona un po’ nell’ambiente. Ma, anche, figura e ambiente sono elementi in sé stessi contraddittori, e poi, che Venere sia addormentata non significa affatto che non sussista lo scarto tra l’ambiente com’è rappresentato (aperto) e come dovrebbe essere (chiuso).
Insomma, la conclamata levigatezza dell’opera in quanto immagine, la fluente armonia tra le sue parti, si frantuma del tutto se il testo è sottoposto ad una analisi anche poco ravvicinata. Il che ispira un’ipotesi. Non sarà stato un errore l’aver cercato nei quadri di Giorgione l’unità e l’armonia a tutti i costi?
In ogni caso, la più vistosa, ed anche la più profonda, contraddizione è proprio nella figura di Venere. Intanto, la dea ha gli occhi chiusi, e questo è già un dettaglio significativo: infatti, da Botticelli in poi, Venere o Afrodite è sempre rappresentata ben desta, attenta, vigile, e non soltanto con Marte, ma anche con Adone. D’altronde, la posa da «bella addormentata» è così seducente che rischia di far dimenticare un’altra osservazione: la Venere di Giorgione è figurata nella stessa postura di Marte addormentato nella tavola di Botticelli che si ammira a Londra (National Gallery). Cioè: nel quadro di Giorgione vediamo Venere sicuramente, ma anche – come soggetto che traluce al di sotto della sua immagine – Marte! E Marte e Venere da sempre (magari anche dallo stesso Lucrezio) sono i due poli di una totalità per così dire universale, pace e guerra, amore e morte, piacere e dovere.
Orbene, Venere e Marte in qualità di pianeti sovrintendono i cieli III e V del Paradiso dantesco, che sono per l’appunto il cielo degli spiriti amanti e il cielo degli spiriti combattenti. Nel III cielo Dante incontra Carlo Martello (VIII 31-148 e IX 1-12): figlio di Carlo II d’Angiò e di Maria d’Ungheria, nasce nel 1271. Nel marzo 1294, durante un viaggio in Toscana compiuto per incontrare il padre Carlo II (lo zoppo) conosce Dante e stringe amicizia con lui. Infatti, rivedendolo in Paradiso gli suggerisce il cielo in cui si trova citandogli il primo verso della canzone Voi che ‘ntendendo ’l terzo ciel movete (VIII 37). Dopo di lui Cunizza da Romano, sorella del più noto (famigerato) Ezzelino, il crudele signore di Treviso: Cunizza, un tempo donna spregiudicata, amante di Sordello da Goito, si ravvede sinceramente e giunge a indirizzare la passione, la naturale esuberanza del suo carattere, ad un amore più alto e puro degli amori terreni, guadagnandosi in questo modo l‘eterna beatitudine. Subito dopo Dante incontra Folchetto da Marsiglia, (IX 67-108ss), apprezzato poeta provenzale, poi divenuto vescovo di Tolosa, sinistramente attivo, al fianco di Simone IV di Montfort e san Domenico, nelle crociate contro gli Albigesi e i Catari. E accanto a lui c’è Raab (IX 109-126), una delle più belle, soavi figure femminili della Bibbia, la prostituta buona che aiutò Giosue nell’assedio di Gerico; da lei discenderà Davide, e quindi Cristo (gs 2 1-23 e mt 1 5-6). I canti XIV e XVIII sono occupati dalla presentazione del cielo, di Marte, V, il cielo degli spiriti combattenti. Tra questi spiccano Carlo Magno e Cacciaguida.
Non ha alcun senso nascondere il disagio di rivedere in Paradiso persone come Carlo Martello, Cunizza, Folchetto. Di primo acchito viene da domandarsi se era tanto difficile trovare gente migliore nell’Europa del secolo XIV. Poi, riflettendo, si fa strada il sospetto che la nostra perplessità non sia dissimile dal senso di superiorità che nutre una signora della Milano bene dell’800 verso persone non altrettanto vicine a Dio come è lei.
Il paesaggio che circonda la dea è fatto di elementi naturali, per così dire tradizionali e facilmente riconducibili all’acqua, all’aria, al fuoco e alla terra (possiamo quindi ammirare il cielo azzurro, un ampio tratto fluviale, il morbido tappeto d’erba su cui è adagiata Venere, la calda luce solare che amalgama la figura e l’ambiente). D’altronde, non possono sfuggire i due inserti cittadini: a destra un folto gruppo di caseggiati attornia una cortina muraria che si erge in alto ed è scandita da numerose arcate cieche a tutto sesto; mentre a sinistra spicca una costruzione bassa e larga a pianta quadrangolare. Già questo tentativo di tradurre le immagini in parole è altamente significante. Senza volerlo (credo) mi sono ritrovato a descrivere due ‘emergenze’ di una delle più belle città d’Italia, vicina sia a Venezia che a Castelfranco: la città è Verona, e le due ‘emergenze’ il teatro romano e il palazzo del vescovado. Il fiume, naturalmente, è l’impetuoso Adige. La dea si trova quindi esattamente di fronte all’ansa Nord dell’Adige.
Intanto, la rappresentazione di Venere addormentata, completamente immersa in un paesaggio splendido ma deserto, non può non suggerire un’altra direzione di ricerca. Venere sta sognando. E sta sognando Verona, la città dei poeti, Catullo e Dante.
Nel 1499 viene stampato a Venezia un romanzo illustrato, intitolato Hypnerotomachia Poliphili, ed attribuibile ad un Francesco Colonna, la cui identità è per lo meno incerta. È una sorta di poema in prosa, le ‘lasse’ o ‘stanze’, di varia ampiezza sono affiancate da numerose xilografie, di qualità così elevata da far pensare niente di meno che ad Andrea Mantegna. Il sogno a cui allude il titolo, labirintico come il testo, è nella tradizione filosofica occidentale (da Platone a Lucrezio, da Aristotele a Cicerone).
Ma i sogni sono più di uno. I principali, quelli cioè che fungono da strutture portanti del racconto, sono ben tre sogni, che sembrano generarsi l’uno dall’altro, o addirittura l’uno nell’altro. In I, i si inizia il sogno di Polifilo, che si concluderà in II, xxxviii, ossia al termine del romanzo-poema. In I, iii il lettore riceve la conferma di trovarsi all’interno del sogno di Polifilo. In cui ha luogo un altro sogno, di Polia, questa volta: il sogno di Polia si inizia in II, xxvii, ovvero subito dopo la morte di Polifilo, e dura fin quasi al termine del capitolo. Notare che a sua volta il sogno di Polifilo, che funge da cornice dell’intera vicenda, è tuttavia interno ad un’altra cornice, che è giusto il racconto di Polifilo!
Nel testo è presente un indizio che conduce a Verona: si tratta della lettera dedicatoria di Leonardo Crasso a Guidobaldo da Montefeltro duca d’Urbino. Baldesar Castiglione nel Cortegiano, III, lxx, lo cita senz’altro come Polifilo, per antonomasia (II, pp. 5-7 e note 1 e 2). Un po’ di tempo addietro, scrive, in latino, Leonardo Grassi, ho avuto tra le mani il libro di Polifilo. Il libro è adespota, ma ricco di dottrina, e per di più composto in lingua sicuramente volgare, ma tuttavia farcita di latinismi e di grecismi. L’esposizione è piacevole, ma la sapienza che vi è contenuta non è per tutti. Io lo dedico a te, che sei persona colta: la tua autorità mi salverà da qualsiasi censura.
Comunque sia, il racconto del sogno (che contiene altri sogni) dà vita a una struttura simile a quella della Divina Commedia. Non si deve dimenticareche Dante, nel ’500, è più popolare in Veneto che nella stessa Toscana. È forse destinata a rimanere incomprensibile la ragione per cui Cosimo I non abbia mai tentato di riaverne le spoglie (mentre si spreca per riportare a Firenze la salma di Michelangelo, occultata in una «balla», inutilmente, considerato che al papa la presenza di Michelangelo, defunto, a Roma non importava granché).
La storia si dipana per blocchi narrativi. Polifilo ama Polia, che non ricambia il suo amore. Un giorno, lui la incontra in un tempio e tenta di ammansirla. Invano, lei continua a respingerlo con durezza. Così, Polifilo muore. Polia, colpita da una freccia di Cupido, non solo si ravvede, ma si innamora anche lei perdutamente del giovane.
Sequenza degli eventi principali: nel primo libro (I-XXIV) Polia inizia ad istruire Polifilo sui misteri d’amore. I due si imbarcano e dopo aver navigato, scendono a terra ed entrano in un teatro, dove stanno svolgendosi riti iniziatici. Qui, Venere in persona unisce i due, ma l’arrivo di Marte comporta la fine dell’incanto. Secondo libro (XXV-XXXVIII): Polia, colpita dalla peste, si consacra a Diana, recandosi nel tempio. Polifilo la scorge e tenta di persuaderla a condividere il suo amore. Ma tutto è vano, Polia persiste nel suo spietato rifiuto. Polifilo pertanto crolla per terra esanime. A questo punto però Polia segue i saggi consigli della nutrice che provvidenzialmente entra in scena. Si reca al tempio e con le sue carezze fa rinvenire Polifilo. I due, travolti dalla passione, si uniscono, ma la sacerdotessa del tempio e le ninfe del seguito li scacciano. I due si recano perciò in un altro tempio, di Venere. E qui avviene l’epilogo: dopo essersi uniti nuovamente con la benedizione della dea, Polia scompare come nebbia al sole, e il sogno anche… In realtà, Polia viene ‘istruita’ dalla sacerdotessa del tempio di Venere, a cui viene mandata dalla nutrice. Scoperto il cadavere di Polifilo, Polia gli tocca il petto, e proprio con quel tocco lo vivifica. Polifilo, così, risuscita, e i due si uniscono in un festoso amplesso. A questo punto, però, essi sono scoperti dalla sacerdotessa e dalla schiera di «obbedienti fanciulle» che la accompagna. Poiché i loro «atti» sono «proibiti in quel luogo sacro», sia la sacerdotessa che le sue «assistenti» montano in collera, minacciano e picchiano i due giovani. Questo episodio (II, pp. 420-439) è illustrato con una delle tavole più sobrie e allo stesso tempo più dinamiche del repertorio figurativo dell’intero poema (I, p. 423).
Lo snodo decisivo del racconto si ha nel settimo capitolo (ma attenzione, i singoli capitoli non sono numerati, bensì introdotti da un argumentum, un conciso riassunto). Polifilo riesce a sfuggire a un drago per ritrovarsi in una terra amena: in questa terra una «bellissima ninfa dormiva giacendo comodamente sopra un panno disteso che, abilmente avvolto, le si gonfiava sotto il capo in una sorta di guanciale». La ninfa è in realtà una statua, più bella della Venere di Prassitele. Inoltre, «plasmata con bulino e scalpello», è «a tal punto perfetta» da indurre a pensare «che fosse stata una creatura vivente in questo luogo pietrificata e trasformata in quel simulacro», II, pp. 89-90. L’illustrazione che adorna il capitolo (I, 73) mostra la ninfa nuda e addormentata, nella stessa postura della Venere di Giorgione. Con una differenza capitale: la ninfa di Polifilo non è sola, accanto a lei vediamo due faunetti e soprattutto un satiro che le fa vento.
Il teatro romano di Verona si affaccia sull’Adige. E sul ponte di pietra. In una antica immagine, facente parte della collezione del teatro romano, il suo prospetto è lambito dall’acqua e l’arena, allagata, è impiegata per battaglie navali.
E intanto, la catena Polia ← sacerdotessa ← nutrice si configura come modellata sulla catena Virgilio ← Beatrice ← Santa Lucia. La configurazione è solo temporanea. Anche i rimandi, nel testo dell’Hypnerotomachia Poliphili, sono cangianti, instabili.
Nel quadro di Giorgione vi è un dettaglio che sembra sopravvissuto dalla xilografia. Tra la figura di Venere ed il fondale paesaggistico e architettonico risalta un ceppo di poco meno di un metro. Il ceppo ricorda l’albero a cui il satiro ha agganciato il telo che serve per ventilare la ninfa. Giorgione ha fuso due immagini in una, della ninfa fontana e di Polia addormentata. Infatti nel racconto della resurrezione di Polifilo si insinua una sorta di vuoto narrativo, tra la morte del giovane e il ritorno di Polia da lui: Polia «ritornò all’alba della mattina seguente a osservare, nel tempio profanato, l’assassinio di un’anima compiuto il giorno prima» (II, 469). Il vuoto narrativo coincide con il sonno di Polia e quindi con un sogno in cui è «forse istigata dagli dei e ammonita per la sua malvagità».
La ristampa anastatica della prima edizione aldina dell’Hypnerotomachia Poliphili ricopre tutto il primo volume dell’edizione Ariani-Gabriele (Adelphi, 2004, 2006), che è un grosso tomo di ben 468 pagine. La traduzione in italiano corrente si estende per 480 pagine del secondo volume. Insomma, siamo di fronte a un testo di grandi dimensioni, e per giunta abilmente articolato.
Ebbene, e la cosa deve stupire, neanche in una delle svariate centinaia di pagine che lo compongono affiora un qualsiasi riferimento al Cristianesimo: nell’indice dei nomi troviamo Giove, Apollo, ma non Gesù, o Dio, troviamo Venere, ma non Maria, i satiri e le ninfe, ma nessuno dei santi o dei beati.
Insomma, se esiste un libro completamente pagano, completamente estraneo a tutta la tradizione cristiana occidentale è proprio questo, un libro, poi, del 1499. Ecco perché è anonimo: personalmente ritengo che gli sforzi di identificare il Francesco Colonna dell’acronimo siano tutti destinati a fallire, per la ragione che Francesco Colonna è un nome troppo diffuso per non fare da copertura.
La lingua del poema è un volgare leggermente oscurato con calchi dal greco e dal latino. A questo punto, può essere che l’ermetismo, anche linguistico, sia una copertura dell’ateismo, o almeno del paganesimo in quanto opposizione all’imperante monoteismo.
Ecco perché Giorgione si era innamorato di Leonardo (Vasari, Jaspers). E qui è anche la differenza rispetto all’ermetismo sincretico di Botticelli, o addirittura di Donatello. Inoltre: dopo Giorgione sarà Tiziano a risospingere la pittura entro i confini dell’ortodossia. Dal canto suo Lorenzo Lotto tenta di assumere il ruolo e la funzione di mediatore, con la docta ignorantia: il non-sapere può garantire equidistanza tra affermazione e negazione di Dio. Sicché lo schema non è Giorgione (sintesi) → Tiziano (tesi) vs Lotto (antitesi), bensì Giorgione (tesi) vs Tiziano (antitesi) → Lotto (sintesi)! Al solito, gli schemi elaborati da Argan si svelano inaffidabili, fallaci, a parte il loro essere errati sul piano metodologico.
L’idea di Warburg secondo cui il Cristianesimo non ha distrutto gli dei antichi, ma si è limitato a ‘imprigionarli’ ne esce rafforzata. Il che a sua volta ne genera un’altra: l’impossibilità, per una religione (o un qualunque sistema di pensiero che venga percepito e assimilato fideisticamente), di cancellare del tutto la precedente. In fondo, il modello sincretico è moderato rispetto a quello selettivo, estremo: il primo implica infatti una certa fusione sia di figure che di racconti appartenenti ad entrambe le religioni, mentre il secondo comporta il rifiuto deciso della nuova e la netta adesione alla vecchia. Che il modello sincretico sia più diffuso non toglie che esista anche quello selettivo.
Tre filosofi e un libro maledetto
I titoli dei quadri e delle statue antiche non sono ‘originali’. La maggior parte di essi proviene dagli inventari. Al pari dei gioielli, dei libri e delle suppellettili le opere d’arte come i quadri e le statue erano i beni mobili più facilmente soggetti a costituire gli assi ereditari oppure ad essere passibili di compravendite, il che rendeva obbligatoria la redazione di inventari o più semplicemente di note descrittive in cui i singoli oggetti dovevano essere in qualche modo denominati: naturalmente, si trattava di elenchi più o meno accurati.
La tavola venne finita da Sebastiano (Michiel), venduta nel 1638 da Bartolomeo della Nave a Lord Basil Fielding ambasciatore inglese a Venezia e da costui dieci anni dopo all’arciduca Leopoldo Guglielmo: nei due cataloghi, quello inglese e quello austriaco, i tre sono identificati come i Magi. Per Karl von Lützow invece i tre rappresentano le tre età del sapere umano, antica, medioevale e moderna. Ben più complessa è l’interpretazione di Wickhoff: nel quadro sono raffigurati Evandro e [suo figlio] Pallante che mostrano ad Enea la roccia su cui sorgerà il Campidoglio (Virgilio [VIII, 653, ma l’episodio è figurato sullo scudo di Enea]).
Una radiografia ha consentito di scoprire dettagli prima naturalmente sconosciuti o addirittura una prima versione del dipinto: dal terzo personaggio infatti è emerso un «negro», che a detta di Settis è senza ombra di dubbio uno dei Magi (p. 22), e inoltre in occasione di una nuova intelaiatura sono venuti alla luce un fico e un’edera e il sasso era una caverna (David Teniers).
Caverna: nei testi apocrifi, è la caverna dei tesori di Adamo (già Leonardo, Vergine delle rocce, aveva rappresentato una caverna simbolica), due luci (occidua e quella proveniente da oriente che «illumina appena il ventre scosceso della grotta» p. 26, misurazioni (celus sul foglio del più vecchio). Tra prima e seconda versione poca distanza, in entrambe Giorgione supera la sacra rappresentazione (manca completamente la profezia di Balaam, passim), la seconda versione ancora più lontana della prima dalla tradizione e conseguentemente ancora più umanistica e rinascimentale.
* * *
Davanti a un quadro o ad una statua ci si può porre in due differenti o addirittura opposte modalità. Si può tentare di decifrarne il senso, più o meno scoperto, oppure si può godere delle loro forme. Ma forse esiste anche una terza via, cercare il significato, senza presumere di poterlo trovare ad ogni costo, e soprattutto coltivando l’idea che un’opera d’arte è un organismo complesso, e quindi, spesso, individuarne il significato con precisione degna di un procedimento industriale è puramente utopistico.
Sul quadro sono state avanzate tante ipotesi, che una in più non nuocerebbe granché. D’altronde, questa stessa premessa la si può capovolgere. Tra le infinite interpretazioni, e varianti di interpretazioni, dei Tre Filosofi vi è una sola che non è mai stata proposta, ed è appunto, questa. È una proposta, ne sono ben consapevole, estremamente scabrosa: non fa piacere a nessuno pensare che un altro essere umano abbia potuto spingersi così in avanti da ridicolizzare alcune delle figure storiche più amate e riverite di tutta l’umanità (una di queste addirittura circonfusa dell’aura del sacrificio e della bontà assoluta). Ma non si può procedere diversamente: l’alternativa sarebbe rinunciare del tutto alla ricerca del ‘significato’ dell’opera, perché, in qualsiasi modo la si guardi, qualsiasi altra ipotesi si formuli, rimarrà sempre vivo il dubbio di aver scartato proprio quella magari più sgradevole, ma anche più attendibile. Davvero siamo disposti ad appagarci dell’impianto formale di un dipinto di questo genere, che con il solo suscitare domande inquieta e attrae?
La storia è piena di libri inesistenti. Tutti abbiamo presente lo scartafaccio di Alessandro Manzoni. Ma uno di questi libri è allo stesso tempo reale ed inventato, e per di più un libro che avrebbe sulla coscienza (se ce l’avesse) milioni di vittime innocenti. Agli inizi del 900 incominciò a circolare in Europa uno strano racconto saggio in cui si favoleggiava di un incontro segreto tra sette personaggi, i più ricchi e influenti del pianeta. L’incontro era finalizzato ad una rapida spartizione del mondo tra i sette. Ne fu redatto un verbale, che appunto è il libro stampato. Oggi sappiamo che fu confezionato in Russia dagli agenti segreti dello zar per fungere da autorizzazione ad una imminente cacciata degli ebrei e susseguente incameramento dei loro beni. All’epoca non pochi credettero che la riunione accadde veramente. In italiano il testo venne tradotto da Giovanni Preziosi (spietato antisemita, suicida a Milano, corso Venezia, il 27 aprile 1945, nato a Torella Lombardi il 24 ottobre 1881), che usò un ‘originale’ tedesco.
La storia di questo libro si inizia nel 1239, quando Gregorio IX insinua che Federico II nonché il suo degno segretario Pier Delle Vigne siano gli autori di un trattato blasfemo, intitolato De tribus impostoribus. I tre impostori sono Mosè, Gesù e Maometto, i fondatori delle tre grandi religioni monoteistiche tuttora attive nel mondo. In realtà, il tema dell’impostura della religione è di gran lunga anteriore: gli antichi se la prendevano coi loro stessi dei (Lucrezio: gli dei esistono ma sono del tutto indifferenti ai destini degli uomini).
Il Cristianesimo scatenò l’ironia di Luciano di Samosata, l’accorata denuncia di Giuliano l’Apostata (Gesù impostore) e le rivelazioni scandalistiche di Celso (Gesù figliuolo di un soldato romano), ma anche di intellettuali ebrei. Invece, col Cristianesimo è Maometto ad affiancare Gesù nel ruolo di impostore. E tuttavia è con Abu Tahir che si completa la triade (1070): Mosè è il Pastore, Gesù il medico, Maometto il cammelliere. Più tardi, in aperta polemica con il mistico al-Ghazali, Averroè (Ibn Rushd) dimostrerà che il mondo è eterno, Dio, che lo ha messo in moto, non partecipa al suo funzionamento, quindi le religioni rivelate sono mendaci. Comincia a prendere corpo l’idea di un libro vero e proprio in cui le religioni rivelate sono derise assieme ai loro fondatori. È qui che viene a collocarsi l’attribuzione a Federico II (peraltro già abbondantemente denigrato dai preti) e a Pier delle Vigne di un libro del genere.
Con l’Umanesimo si infoltisce la schiera degli atei e degli epicurei, ma sono i dibattiti religiosi, sfociati poi in guerre sanguinose, a rilanciare il tema, e a moltiplicare le attribuzioni. A detta di Vasari, Leonardo era ateo. Ma il peggiore indiziato come autore del libro è Bernardino Ochino, uno dei pochi appartenenti all’area grigia tra la Riforma e il Cattolicesimo, e quindi invisi a tutti (senese, di famiglia così modesta da non poter vantare neanche un ‘vero’ cognome, che non sia quello che gli deriva dalla contrada d’origine, Bernardino Ochino, domenicano, avanza dubbi sulla trinità e sull’eucaristia).
Con lui Giordano Bruno (non possono coesistere due infiniti, Dio e il mondo) condivide il destino di una fine violenta, ma anche l’accusa di essere l’autore del trattato. Invece, il grande Pietro Ramo, assassinato nella strage di San Bartolomeo (il 24 agosto 1572), risulta esserne stato solo lettore, secondo la tardiva dichiarazione di Florimond de Raemond. Lo storico e giurista cattolico, nato nel 1540 e morto il 17 novembre 1601, racconta, proprio nel 1601, di aver visto il trattato nel collegio di Presles, tra le mani di Pietro Ramo, docente e preside.
Ma ci si accorge ben presto che molti stanno parlando di un libro che (ancora) non esiste. Si apre quindi la caccia a quello che ormai è un libro fantasma. Ne prende parte una regina, Cristina, figlia del re di Svezia Gustavo Adolfo: dopo aver abdicato prende a viaggiare in Europa e si dedica alla ricerca.
Siamo in pieno Seicento (Gustavo Adolfo muore nel 1632 nel corso della battaglia di Lützen, Sassonia, momento culminante della fase svedese interna alla guerra dei trent’anni). Cristina rimedia dal suo peregrinare in Europa il godimento del paesaggio e delle opere d’arte, la sua ricerca purtroppo non ha successo. È sintomatico d’altronde che finalmente non ci si appaghi più di nominarlo o di citarlo, il libro, ma lo si cerchi, sia pure con affanno e invano.
È solo tra la fine del secolo XVII e l’inizio del successivo che stranamente cominciano ad apparire qua e là in Europa, ma soprattutto in Germania, alcune copie del libro. Si possono distinguere ben due filoni. Da un lato abbiamo il trattato in latino, ma pare tradotto dall’italiano, intitolato De Tribus impostoribus, dall’altro la versione in francese (Traité de trois imposteurs).
In una lettera del 13 marzo 1716 al barone Hohendorf, Leibnitz racconta di aver consultato un esemplare del trattato in latino dentro la biblioteca di Johann Friedrich Mayer. Alla morte di questi, il figlio delibera di vendere il ricco patrimonio librario del padre, il che accende l’interesse di Hohendorf. Costui invia l’amico Leibnitz a ispezionare la biblioteca in vendita. E Leibnitz riesce ad ottenerne il permesso, forse soltanto a causa del suo prestigio. Il tempo a sua disposizione è limitato, ma il libro è solo di 28 pp. in folio piccolo, ciascuna pagina contiene non più di venticinque righe di testo.
Il Traité invece affiora in due volumi, entrambi afferenti a Spinoza, la Vita di Spinoza di Lucas (prima edizione L’Aja 1719 → esemplari a Los Angeles, Bruxelles, Firenze e Francoforte) e un saggio sulla sua filosofia di Vroese.
Tra i due filoni sussistono alcune differenze. Intanto, nel filone latino Gesù non viene mai indicato con il suo nome, nel filone francese sì, e anzi in questo Gesù è attaccato apertamente. Inoltre il filone latino è più ‘composto’, diversamente dal filone francese che mostra una spiccata aggressività.
Ma nonostante tutto, un tratto accomuna i due filoni. Il testo è come raffazzonato, cioè ottenuto con l’affastellamento di brani di provenienza eterogenea. Segno tangibile del fatto, piuttosto singolare, che ci troviamo di fronte a un libro che è stato letto e commentato, per secoli, ancora prima d’essere scritto (il Beneficio di Cristo o il saggio sulla predestinazione di Juan de Valdès hanno dovuto attendere dei secoli prima d’essere pubblicati e analizzati).
Il bagno di Madonna Laura de Noves
«Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.
S’egli è pur mio destino
e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
et torni l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in piú riposato porto
né in piú tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l’ossa.
Tempo verrà anchor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
et là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pieta!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m’impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
Da’ be’ rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo;
et ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito et perle
eran quel dí a vederle;qual si posava in terra, et qual su l’onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: Qui regna Amore.
Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Cosí carco d’oblio
il divin portamento
e ’l volto e le parole e ’l dolce riso
m’aveano, et sí diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
Qui come venn’io, o quando?;
credendo esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
questa herba sí, ch’altrove non ò pace.
Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,
poresti arditamente
uscir del boscho, et gir in fra la gente».
È stato giustamente osservato che il tipico paesaggio petrarchesco è «orizzontale». Gli oggetti che lo compongono tendono a dislocarsi su un unico piano da un lato all’altro del campo figurativo. Il che non implica affatto l’assenza di prospettiva o – per lo meno – di profondità. Ma solo la mancanza del focus, del punto di convergenza delle «linie visuali» (il lessico è di Leonardo, l’idea sarà di Keplero), ossia di quel dettaglio che unifica e subordina a sé tutti gli altri elementi della visione.
In una celeberrima lettera a Dionigi di Borgo San Sepolcro, datata 26 aprile 1336, Petrarca narra la sua scalata a Mont Ventoux, Monte Ventoso (Provenza), in compagnia del fratello Gherardo (Familiares IV 1). Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, considerando intanto il tema della lettera, appunto un’«ascensione», il paesaggio è anche in questo caso «orizzontale»: infatti, a un certo punto della narrazione, Petrarca inquadra la scena zoomando all’indietro, in modo da mostrare sé stesso in atto di arrancare, mentre il fratello procede speditamente su un sentiero collaterale (terzo paragrafo).
Un altro esempio, Chiare, fresche et dolci acque (RVF CXXVI), appunto: Petrarca immagina che dopo la sua morte Laura lo cerchi e, non trovandolo, si innamori finalmente di lui. Questo pensiero suscita nel poeta un’immagine straordinaria, un desiderio in forma di ricordo: Laura seduta, sotto una pioggia di fiori, humile in tanta gloria (v. 44), arresa all’amore del poeta. Orbene, il quadro è incentrato su questa immagine, ma ne contiene un’altra, per così dire a latere: è un autoritratto del poeta, quasi un cameo, in atto di contemplare (o di spiare?) Laura. Che non è più la signora bellissima e sdegnosa quale già appare, sia pure da lontano, in RVF III (Era il giorno ch’al sol si scoloraro), bensì la donna che si è lasciata vincere dall’amore. Non sarà certo un caso che nel congedo Petrarca inviti la canzone a muoversi «arditamente», cioè a lasciare la solitudine (il «bosco») e a mescolarsi con le altre persone («et gir in fra la gente»): il «Se» iniziale è asseverativo, l’avverbio descrive la gioiosa risolutezza con cui l’amante felice riprende a vivere. Ch’io sappia soltanto la stupenda Canzone di Lucio Dalla è in grado di suscitare un’emozione paragonabile a questa.
Il ritratto di Laura dipinto da Simone Martini è ‒ com’è noto ‒ perduto, ma la storia dell’arte offre un altro ritratto ‘petrarchesco’ il cui profilo avrà suggerito al Bronzino il profilo di Laura Battiferra, ben più del suo stesso ritratto di Dante. È il ritratto di Simonetta Cattaneo Vespucci, una splendida tempera su tavola di soli 57×42 cm, databile all’incirca al 1480 e custodito a Chantilly, Château de Chantilly, Musée Condé. La donna, o meglio la ragazza, appare di profilo su uno sfondo paesaggistico: anch’ella, come poi Laura, è orientata verso sinistra. La linea che ne disegna il volto (la fronte, gli occhi, il naso, le labbra, il mento, il collo) è fluida e sinuosa, e si risolve in un rapido susseguirsi di curve, marcate e dolci allo stesso tempo. La veste è un ampio mantello o un foulard di seta a fantasia minuta e regolare che le discende sul torso lasciando nudi i seni, piccoli e ben formati, e la spalla sinistra. Sul petto una collana d’oro a cui si avvinghia un serpente, creando un andamento a riccioli che rimano con le volute dell’acconciatura e la larga spirale del mantello.
Come Cleopatra, Simonetta Cattaneo Vespucci è destinata a regnare. A differenza dell’antica regina, però, non sarà morsa dall’aspide, che si attorciglia sulla collana, scambiandola, senza ombra di dubbio, per un altro serpente.
Il risultato è che il ritratto sprigiona un erotismo che soltanto la critica più bigotta e distratta si ostina a non vedere. È da notare un dettaglio, soltanto in apparenza secondario: il lieve rigonfiamento ascellare tra il braccio sinistro e il torso. Inoltre, il quadro è intitolato SIMONETTA JANUENSIS VESPUCCIA. Januensis, lemma dantesco (VE I VIII 7), allude alle origini genovesi della famiglia Cattaneo, mentre Vespucci è il marito di Simonetta, Marco. Il cognome, cioè, è declinato al femminile (Vespuccia), esattamente come Battiferri diviene Battiferra se riferito a Laura.
Bellissima la Vita che di Piero di Cosimo scrive Vasari. Piero di Cosimo (allievo di Cosimo Rosselli) vi appare come un uomo «astrattato da gli altri», ed un artista straordinario, capace di «una certa sottilità nello investigare certe sottigliezze della natura, che penetrano, senza guardare a tempo e fatiche, solo per suo diletto e per il piacere della arte», p. 569 della «torrentiniana». «Fermavasi talora a considerare un muro, dove lungamente fosse stato sputato da persone malate, e ne cavava le battaglie de’ cavagli e le più fantastiche città e più gran paesi che si vedesse mai: simil faceva de i nuvoli dell’aria», p. 567, sempre della «torrentiniana». Nella «giuntina» i due brani ricorrono quasi identici.
È singolare che del ritratto di Simonetta Vasari non dica neanche una parola, nella «torrentiniana» come nella «giuntina».
Nel quadro di Bronzino si è dissolto del tutto il pungente erotismo che serpeggia nel quadro di Piero di Cosimo: dall’ultimo ventennio del 400 fino agli anni cinquanta del secolo successivo il panorama storico è cambiato profondamente, grazie anche al concilio di Trento e la Controriforma.
* * *
«Standomi un giorno solo a la fenestra,
onde cose vedea tante, et sí nove,
ch’era sol di mirar quasi già stancho,
una fera m’apparve da man destra,
con fronte humana, da far arder Giove,
cacciata da duo veltri, un nero, un biancho;
che l’un et l’altro fiancho
de la fera gentil mordean sí forte,
che ’n poco tempo la menaro al passo
ove, chiusa in un sasso,
vinse molta bellezza acerba morte:
et mi fe’ sospirar sua dura sorte.
Indi per alto mar vidi una nave,
con le sarte di seta, et d’òr la vela,
tutta d’avorio et d’ebeno contesta;
e ’l mar tranquillo, et l’aura era soave,
e ’l ciel qual è se nulla nube il vela,
ella carca di ricca merce honesta:
poi repente tempesta
orïental turbò sí l’aere et l’onde,
che la nave percosse ad uno scoglio.
O che grave cordoglio!
Breve hora oppresse, et poco spatio asconde,
l’alte ricchezze a nul’altre seconde.
In un boschetto novo, i rami santi
fiorian d’un lauro giovenetto et schietto,
ch’un delli arbor’ parea di paradiso;
et di sua ombra uscian sí dolci canti
di vari augelli, et tant’altro diletto,
che dal mondo m’avean tutto diviso;
et mirandol io fiso,
cangiossi ’l cielo intorno, et tinto in vista,
folgorando ’l percosse, et da radice
quella pianta felice
súbito svelse: onde mia vita è trista,
ché simile ombra mai non si racquista.
Chiara fontana in quel medesmo bosco
sorgea d’un sasso, et acque fresche et dolci
spargea, soavemente mormorando;
al bel seggio, riposto, ombroso et fosco,
né pastori appressavan né bifolci,
ma ninphe et muse a quel tenor cantando:
ivi m’assisi; et quando
piú dolcezza prendea di tal concento
et di tal vista, aprir vidi uno speco,
et portarsene seco
la fonte e ’l loco: ond’anchor doglia sento,
et sol de la memoria mi sgomento.
Una strania fenice, ambedue l’ale
di porpora vestita, e ’l capo d’oro,
vedendo per la selva altera et sola,
veder forma celeste et immortale
prima pensai, fin ch’a lo svelto alloro
giunse, et al fonte che la terra invola:
ogni cosa al fin vola;
ché, mirando le frondi a terra sparse,
e ’l troncon rotto, et quel vivo humor secco,
volse in se stessa il becco,
quasi sdegnando, e ’n un punto disparse:
onde ’l cor di pietate, et d’amor m’arse.
Alfin vid’io per entro i fiori et l’erba
pensosa ir sí leggiadra et bella donna,
che mai nol penso ch’i’ non arda et treme:
humile in sé, ma ’ncontra Amor superba;
et avea indosso sí candida gonna,
sí texta, ch’oro et neve parea inseme;
ma le parti supreme
eran avolte d’una nebbia oscura:
punta poi nel tallon d’un picciol angue,
come fior colto langue,
lieta si dipartio, nonché secura.
Ahi, nulla, altro che pianto, al mondo dura!
Canzon, tu puoi ben dire:
‒ Queste sei visïoni al signor mio
àn fatto un dolce di morir desio ‒ ».
La lirica può essere tranquillamente assunta a manifesto del Simbolismo moderno. È una canzone di ben sei stanze, a cui si aggiunge il congedo. Lo schema metrico è il seguente: ABC (piede) ABC (piede) (fronte) eDE (volta) eDD (volta) (sirima). In breve: la stanza si suddivide in fronte e sirima (notare che in questa canzone manca la chiave, un verso, per lo più settenario, che collega la fronte con la sirima). La fronte è ripartita in due piedi, la sirima in due volte. Il congedo ricalca lo schema della sirima o del secondo piede, come in questa canzone.
Il primo verso («Standomi un giorno solo a la fenestra») suggerisce un dipinto di Sironi, intitolato appunto Solitudine, in cui si vede una donna, seduta, con il seno sinistro scoperto, che guarda al di là di una finestra delimitata da un arco a tutto sesto, priva di vetri e imposte, e che a sua volta inquadra lo spigolo tagliente di un edificio cubico e indefinito, che è a quanto sembra tutto ciò che rimane d’una città soggetta ad un processo di desertificazione. Il quadro rientra nella fase ‘metafisica’ di Sironi. In realtà, è una nitida rappresentazione della storia d’Italia che si apre con l’assassinio di Matteotti e che prosegue con il mancato crollo del regime, la raffica di attentati subiti da Mussolini, le leggi «fascistissime» del 1926 e la cappa di piombo che scende sulla nazione, magistralmente rappresentata nel romanzo La noia di Alberto Moravia, del 1960.
Petrarca raffigura se stesso affacciato ad una finestra, intento ad immaginare una teoria di strane apparizioni, ben sei, una per ogni stanza della canzone. Le immagini non si generano l’una dall’altra, ma sono per così dire allineate l’una di seguito all’altra, e addirittura non sembrano collegate tra loro, se non da un vago senso di tristezza e di morte. Eccole, dunque, in ordine di apparizione: 1) la «fera» tra i «due veltri»; 2) la «nave» nel mare in tempesta; 3) il «lauro» esposto ai fulmini; 4) lo «speco» e la «chiara fontana»; 5) la «strania fenice»; 6) la donna bella e leggiadra «punta» dal «picciol angue».
Lo spazio dell’astrazione
Kandinsky, Primo acquerello astratto, 1910, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou. È l’anno della Danse, ma anche della Città che sale. Il quadro si compone di grumi e filamenti di colore in movimento: si tratta anzi della presentazione di un movimento completamente privo di figure.
«Vedere
Il Blu, il Blu si sollevò, si sollevò e cadde.
Acuminato, sibilò e penetrò sottile, ma non
trafisse.
Da ogni angolo un rimbombo.
L’Ocra pastoso rimase appeso sembra per tutta
l’eternità.
Sembra. Sembra. Più ampie
devi allargare le braccia.
Più ampie. Più ampie.
E il volto dovresti coprirti con un panno rosso.
E forse non si è spostato affatto: tu ti sei
semplicemente spostato.
Bianco salto dopo bianco salto.
E dopo quel bianco salto ancora un bianco
salto. E in quel bianco salto un bianco salto. In
ogni bianco salto un bianco salto».
Punte nell’arco, 1927, olio su tela, 66×49 cm, Parigi, collezione privata.
«L’azione di due forze sul campo delle linee può esplicarsi in due diverse maniere:
- le due forze si dànno il cambio – azione alternante,
- le due forze concorrono – azione simultanea.
È chiaro che il secondo processo è di carattere più forte e perciò “più caldo”, soprattutto perché questo processo può anche esser considerato effetto di molte forze alternanti.
Di conseguenza la drammatizzazione si rafforza, e alla fine si formano delle linee puramente drammatiche.
Così il regno delle linee comprende in sé tutti quanti i suoni espressivi, dalla fredda lirica, all’inizio, fino alla drammaticità ardente finale.
Naturalmente ogni fenomeno del mondo esterno e interno può avere in questo modo un’espressione lineare – una specie di traduzione. […]
I risultati che corrispondono ai due tipi di forze sono:
[…] Forze: due alternate, due simultanee.
Risultati: linee spezzate, linee curve.
I.B
Linee spezzate o ad angolo.
[…]
La linea spezzata nasce dalla pressione di due forze, nel modo seguente (fig. 24):
[…]
Le forme più semplici delle linee spezzate sono costituite da due parti e sono il risultato di due forze che hanno arrestato la propria azione dopo un solo urto. Ma questo semplice processo crea una differenza importante tra le linee rette e le linee spezzate: in queste ultime si ha un contatto molto più intenso con la superficie, la linea spezzata porta già in sé qualcosa che appartiene alla natura della superficie. La superficie sta nascendo, e la linea spezzata diventa un ponte. Le differenze fra le innumerevoli linee spezzate dipendono esclusivamente dall’ampiezza degli angoli […].
L’angolo retto si erge solitario nella sua grandezza e varia solo la sua direzione. Gli angoli retti in contatto fra loro non possono essere più di quattro: o si toccano con i vertici, e in questo caso si forma una croce, o attraverso il contatto dei lati divergenti si creano superfici rettangolari – nel caso più regolare il quadrato».
Inoltre «il suono musicale giunge direttamente all’anima. E vi trova subito un’eco, perché l’uomo “ha la musica in sé”», p. 47.
«Effetti del colore: Si ha un effetto puramente fisico […].
L’altro fondamentale risultato dell’osservazione del colore, è il suo effetto psichico. Emerge allora la forza psichica del colore, che fa emozionare l’anima […]».
Ed ecco un altro quadro ‘astratto’, Croce Nera di Kasimir Malevič, a cui si è indotti dal brano di Kandinsky sugli angoli.
Da appaiare a Quadrato nero.
La lirica seguente, spaziale-astratta, sembra la traduzione – non letterale – del senso dei due dipinti:
«Sinistra, in alto nell’angolo, un puntolino.
destra, nell’angolo in basso, altro puntolino.
E al centro niente di niente.
E niente di niente è tanto, tantissimo.
In ogni caso assai più di qualcosa».
Semplicità apparente, chiunque può (ri)produrre un quadro o un oggetto di Mondrian. Infatti, i quadri di Mondrian sono quadrati e/o rettangoli colorati di grandi dimensioni. Le linee rette e perpendicolari. E i colori primari.
La scienza ripensa lo spazio-tempo, la storia si allunga e si moltiplica, lo stesso io si sdoppia. Tramonto dell’idea di Struttura → Montale, Questo solo oggi possiamo dirti…
Ma a veder bene: assenza di profondità. Nessuna mescolanza perfetta uniformità e piattezza cromatica. L’immagine non rappresenta nulla, non è altro che ciò che è, il macrocosmo del mondo è quindi sostituito dal microcosmo dell’arte.
Pertanto, il quadro è Dio, è esso stesso Struttura.
Ecco perché il genio creatore non esiste. Inoltre, se il quadro è Dio o Struttura, è anche un essere vivente, e quindi non ha il dovere di significare, la sua forma esteriore è labirintica nel senso che è autosufficiente.
Del resto, è sufficiente una minima variazione per variare l’insieme. Invece la Struttura in quanto nostra ipotesi del mondo è per definizione immutabile e quindi inutile, come probabilmente aveva intravisto Warburg. Infine, ambiguità della parola struttura (Friedrich, Croce).
Le fughe della luce barocca
Bellezza del Barocco: quel re che ne trovava pesante la pittura non aveva capito nulla, oppure si riferiva a una vulgata collaterale (ma in ogni caso, è tra coloro che hanno ‘fondato’ l’avversione al barocco dell’Occidente moderno, in compagnia di Croce, naturalmente, che dichiara il Barocco essere il Brutto). La luce è la vera protagonista di tutta l’arte barocca, l’architettura, la scultura e la pittura, nonché l’oreficeria e l’ebanisteria. Ecco a che serve il poderoso apparato decorativo fatto di riccioli di onde e di volute barocco: ad increspare la luce ed impedirle di scivolare sulle superfici, ma anche a distribuirla per gli spazi, localizzandola in alto, e annullandola o riducendola in basso, come in San Benedetto di Conversano e nella chiesa del Carmine di Noicattaro. Perciò la pratica dello spellare le nostre chiese per riportarle allo stile ‘originario’ è stata delittuosa.
Dominio della luce: dal seno del Barocco si origina il suo contrario apparente, l’aereo Rococò. Inoltre, la luce del Barocco è sempre in fuga – nel senso che il fenomeno luce non solo diviene continuamente, ma anche e soprattutto fugge continuamente, come a nascondersi da qualcosa…
Il cranio lucido del San Girolamo di Caravaggio nell’oratorio del duomo della Valletta allude alla resurrezione? Ma senza la certezza di una chiamata divina come nel Michelangelo paolino. Piuttosto, come in san Paolo caduto da cavallo della cappella Contarelli.
Tornare in chiesa. I teschi della chiesa matrice di Noicattaro sono due. Soltanto due. Perché? Che cosa sono? Che cosa rappresentano? La lesena a dx della 1ª cappella reca alla base, sotto i due «teschi» la pisside alata a forma di pigna. I due ritratti sulle imposte della 2ª cappella non sono chiaramente «soldati», come è dichiarato nella rete (in ben tre ‘siti’, ho appurato). Clinca magister, inoltre, che cosa ha realmente fabbricato? I personaggi verbali sono Clinca magister e Francesco Corrado. I figurati i due «soldati», i due «teschi», e l’orbo. Vi è una relazione, e quale?
«Mentre di lei, che mio bel sole adoro,
idolatra vagheggio il bel sembiante,
ed ella, empia, ritrosa e noncurante,
delle bellezze sue cela il tesoro;
del corpo mio, che di lontan mi mòro,
veggo, per opra del gran lume errante,
l’ombra felice, a la superba avante,
usurparsi il mio gaudio, il mio ristoro.
Così m’è forza invidiar quel vano
apparente di me che l’aria ingombra,
mentre io vivo e verace ardo lontano.
Oh come, amor, le tue fallacie adombra
il mio stato infelice; onde sia piano
ch’ogni gioia d’amor consiste in ombra!».
«M’esaudì al contrario Giano. La giusta preghiera
dirizzola a te, Febo, ch’orni la scola mia.
Veggoti nell’Ariete, levato a gloria, ed ogni
vital sostanza or emola farsi tua.
Tu subblimi, avvivi e chiami a festa novella
ogni segreta cosa, languida, morta e pigra.
Deh! avviva coll’altre me anche, o nume potente,
cui più ch’agli altri caro ed amato sei.
Se innanzi a tutti, te, Sole altissimo onoro,
perché di tutti più, al buio, gelato tremo?
Esca io dal chiuso, mentre al lume sereno
d’ime radici sorge la verde cima.
Le virtù ascose ne’ tronchi d’alberi, in alto
in fior conversi, a prole soave tiri.
Le gelide vene ascose si risolvono in acqua
pura, che, sgorgando lieta, la terra riga.
I tassi e ghiri dal sonno destansi lungo;
a minimi vermi spirito e moto dài.
Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive:
invidio misero tutta la schera loro.
Muoiono in Irlanda per mesi cinque, gelando,
gli augelli, e mo’ pur s’alzano ad alto volo.
Tutte queste opere sono del tuo santo vigore,
a me conteso, fervido amante tuo.
Credesi ch’ogge anche Giesú da morte resurse,
quando me vivo il rigido avello preme.
L’olive secche han da te pur tanto favore:
rampolli verdi mandano spesso sopra.
Vivo io, non morto, verde e non secco mi trovo,
benché cadavere per te seppelito sia.
Scrissero le genti, a te senso e vita negando,
e delle mosche fecerti degno meno.
Scriss’io ch’egli erano eretici, a te ingrati e ribelli;
m’han sotterrato, vindice fatto tuo.
Da te le mosche e gl’inimici prendono gioia;
esserti, se séguiti, mosca o nemico meglio è.
Nullo di te conto si farà, se io spento rimango:
el tuo gran titolo meco sepolto fia.
Tempio vivo sei, statua e venerabile volto,
del verace Dio pompa e suprema face.
Padre di natura e degli astri rege beato,
vita, anima e senso d’ogni seconda cosa;
sotto gli auspici di cui, ammirabile scola
al Primo Senno filosofando fei.
Gli angelici spirti in te fan lietissima vita:
a sí gran vite viva si deve casa.
Cerco io per tanti meriti quel candido lume,
ch’a nullo mostro non si ritenne mai.
Se ’l fato è contra, tu appella al principe Senno,
ch’al simolacro suo grazia nulla nega.
Angelici spirti, invocate il principe Cristo,
del mondo erede, a darmi la luce sua.
Onnipotente Dio, gli empi accuso ministri,
ch’a me contendon quel che benigno dài.
Tu miserere, Dio, tu che sei larghissimo fonte
di tutte luci: venga la Luce Tua».
Estensioni barocche
Guttuso, La visita della sera, olio su tela, 160×194 cm, 1980, Roma, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea. L’ortodossia di Guttuso personaggio politico è fuori discussione. Guttuso è sempre stato vicino alla segreteria del suo partito, insomma, dalla parte del segretario, che sia Togliatti, o Longo, o Berlinguer, come ben seppe Sciascia – anche a proprie spese: la sua lealtà inossidabile sopravvive alle catastrofi, l’invasione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, lo ‘strappo’ dei compagni cinesi. In questo, Guttuso non è mai stato mosso da piaggeria, da voglia di piacere o peggio ancora dal calcolo e dall’astuzia: va ricordato che egli è sempre stato popolarissimo e, diciamolo pure, estremamente ricco (almeno per il livello medio del più grande partito comunista del blocco occidentale), indipendentemente dai segretari che si sono avvicendati in Via delle Botteghe Oscure. Semplicemente, Guttuso ha incarnato il modello del militante perfetto, dell’uomo di partito e d’apparato, che antepone la disciplina alla critica, l’appartenenza all’interiorità, come se il PCI, seconda forza parlamentare dell’Italia democristiana, fosse ancora il partito clandestino del ventennio fascista: per dirla in breve, Guttuso, il maestro riconosciuto di intere generazioni, è una sorta di Cipputi dell’arte, e in genere della cultura italiana moderna. Ed è superfluo sottolineare che in arte ortodossia significa realismo socialista.
Eppure, è proprio il ‘realista’ Guttuso il pittore più ‘simbolista’ del proprio tempo. Pari a Guttuso, per spessore simbolico, vedo solo Sironi, che forse ne è la faccia più oscura. E intanto, sarebbe profondamente sbagliato spiegare il simbolismo di quadri come Spes contra spem, La Vucciria, o La visita della sera con l’età avanzata del maestro o la crisi delle certezze innescata dal ’68. Infatti, la giovanile Crocifissione, del 1941, è ampiamente intessuta di elementi ‘simbolici’ o scaturenti da una rarefatta cultura religiosa, come la nudità di Maddalena. Inoltre, l’idea della derivazione da Picasso appare superficiale, oltreché provinciale. Picasso sicuramente influenza Guttuso, lo affascina, ma è più simbolista che simbolico.
E allora sorge spontaneo chiedersi perché Togliatti, il Togliatti del ’48, del fronte popolare, nonché della polemica anti astrattista non abbia mai mosso un dito contro questa pittura, solo apparentemente ‘realista’ e quindi decifrabile, ma sotto sotto profondamente simbolica e pertanto ‘difficile’. È evidente che la lezione di Margherita Sarfatti e quindi di Novecento non è finita con il regime, ma gli è sopravvissuta al punto da entrare nel mondo attuale. Piuttosto che collegare l’estetica di Togliatti all’asfittica idea dell’arte come rispecchiamento della storia, è forse più redditizio ipotizzare una continuità tra il rifiuto dell’astrattismo come forma assoluta e il tentativo di fondere elitarismo e massificazione dell’arte.
Lighea
Il chiarissimo professor La Ciura, senatore del Regno, sta raccontando ad un giovane amico giornalista, Paolo Corbera, la propria storia. È il 1887, La Ciura è immerso nella preparazione al concorso universitario, la pesante calura dell’estate etnea lo spinge a trasferirsi ad Augusta, in riva al mare. E qui, succede subito qualcosa. «Mi ero svegliato da poco – rammenta – ed ero subito salito in barca; pochi colpi di remo mi avevano allontanato dai ciottoli della spiaggia e mi ero fermato sotto un roccione la cui ombra mi avrebbe protetto dal sole che già saliva, gonfio di bella furia, e mutava in oro e azzurro il candore del mare aurorale. Declamavo, quando sentii un brusco abbassamento dell’orlo della barca, a destra, dietro di me, come se qualcheduno vi si fosse aggrappato per salire. Mi voltai e la vidi: il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare, due piccole mani stringevano il fasciame. Quell’adolescente sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere dentini aguzzi e bianchi».
L’adolescente, in realtà, è un essere particolare: «Emerse diritta dall’acqua sino alla cintola, mi cinse il collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare nella barca: sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta che lenta batteva il fondo della barca. Era una Sirena».
«Parlava greco – confessa il professore – e stentavo molto a capirla. “Ti sentivo parlare da solo in una lingua simile alla mia; mi piaci, prendimi. Sono Lighea, son figlia di Calliope. Non credere alle favole inventate su di noi: non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto”». Lighea e il giovane trascorrono un venti giorni insieme, finché Lighea, chiamata dagli altri abitanti del mare, lo lascia.
Il giovane vince il concorso, diventa un ricercato professore di Greco e senatore del Regno. Dopo aver raccontato l’avventura al giornalista, il professore s’imbarca a Genova in direzione Napoli, ma durante il tragitto cade in mare…
Si può soltanto immaginare la profonda emozione provata dallo studioso nell’udire qualcuno parlare con freschezza l’antica lingua greca, una lingua meravigliosa, nonché estremamente musicale, che noi adesso siamo costretti solo a ‘pensare’. È il momento cruciale dell’intero racconto. Gli antichi non sono morti tutti, tra loro c’è anzi l’eterna adolescente, di natura divina, che è più viva delle tante ragazze d’oggi, naturalmente mortali (pp. 54-55)!
Persino nel mondo antico l’arte figurativa oscilla tra astrattismo e naturalismo.
«Itaca
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi,
va’ in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare».
Non aver fretta di rincasare, goditi il viaggio. Ma non dimenticare la tua meta. Il nucleo concettuale della poesia è forse in ε 215-251 (Circe, tu sei una dea, Penelope non può competere con te, ma è mia moglie…).
«“O dea sovrana – dice Odisseo a Calipso – non adirarti con me per questo: so anch’io,
e molto bene, che a tuo confronto la saggia Penelope
per aspetto e grandezza non val niente a vederla:
è mortale, e tu sei immortale e non ti tocca vecchiezza.
Ma anche così desidero e invoco ogni giorno
di tornarmene a casa, vedere il ritorno.
Se ancora qualcuno dei numi vorrà tormentarmi sul livido mare,
sopporterò, perché in petto ho un cuore avvezzo alle pene.
Molto ho sofferto, ho corso molti pericoli
fra l’onde e in guerra: e dopo quelli venga anche questo!”
Così diceva: e il sole s’immerse e venne giù l’ombra:
entrando allora sotto la grotta profonda
l’amore godettero, stesi vicino uno all’altra.
Ma come, figlia di luce, brillò l’Aurora dita rosate,
subito manto e tunica Odisseo rivestì;
e lei un manto candido, ampio, vestiva la ninfa,
sottile, grazioso, e cinse la cintura sui fianchi,
bella, d’oro, e sul capo il suo velo.
Per Odisseo magnanimo, poi, preparò la partenza.
Gli diede una gran scure, ben maneggevole,
di bronzo, a due tagli: e un manico c’era
molto bello, d’ulivo, solidamente incastrato.
Gli diede anche un’ascia lucida e gli insegnava la via
verso l’estremo dell’isola, dov’erano gli alberi alti,
ontano e pioppo e pino, che al cielo si leva,
secchi da tempo, ben stagionati, da galleggiare benissimo.
Quando gli ebbe mostrato dov’erano gli alberi alti,
lei tornò a casa, Calipso, la dea luminosa;
lui prese ad abbattere i tronchi; rapidamente gli veniva il lavoro.
Venti in tutto ne buttò giù, li sgrossò con il bronzo,
li levigò ad arte, li fece dritti a livella.
Portò intanto trivelle, Calipso, la dea luminosa;
e lui tutti li trivellò, li adattò gli uni agli altri,
e con chiodi e ramponi collegò bene la zattera.
E quanto pescaggio segna su scafo
di nave da carico, larga, un maestro dell’arte;
altrettanto segnò sulla zattera larga Odisseo».
Il tema dell’enumerazione delle merci ritorna, poco variato, nella ballata Scarborough Fair, che annovera tra i propri interpreti Simon & Garfunkel, Amy Nuttall, Sarah Brightman.
«Are you going to Scarborough fair?
Parsley, sage, rosemary and thyme
Remember me to one who lives there
He once was a true love of mine
Tell him to make me a cambric shirt
Parsley, sage, rosemary and thyme
Without no seam nor needlework
Then he’ll be a true love of mine
Tell him to find me an acre of land
Parsley, sage, rosemary and thyme
Between the salt water and the sea strand
Then he’ll be a true love of mine
Are you going to Scarborough fair?
Parsley, sage, rosemary and thyme
Remember me to one who lives there
He once was a true love of mine…».
Petrarchismo figurativo
Esiste un petrarchismo figurativo (principalmente pittorico e scultoreo e in parte architettonico) complementare a quello letterario o almeno parallelo? Saggezza impone di usare come discrimine il «paesaggio orizzontale». È petrarchesco il quadro o il gruppo scultoreo che tende a svolgersi da un lato all’altro del campo figurativo, abbandonando l’accentramento prospettico.
Piero di Cosimo entra d’ufficio nel petrarchismo figurativo, come dichiara la sua Pseudo Cleopatra, a cui però occorre aggiungere La morte di Procri. Ma sono i veneti, a cominciare proprio da Giorgione, nonché dal suo maestro, che è l’ultimo Giambellino a tradurre in immagini Petrarca.
Del resto, è proprio tra Asolo e i colli Euganei (Arquà), in quell’area ridente ed operosa che arriva alle sponde dell’Anaxum, che il passato rivive. E a questo punto perché lasciare da parte Palladio, Jacopo da Bassano, il Pordenone (col viatico, naturalmente, dell’Aretino, nonché dei due imprescindibili Pino e Dolce)? Insomma, uscendo dall’Umanesimo e avvicinandoci alla «bella maniera» possiamo rilevare che l’asse per così dire ‘portante’ dell’arte figurativa (ma anche della letteratura, vedere il dibattito sulla lingua) si sposta dalla Toscana al Veneto. Insomma, da un lato Pietro Bembo e soprattutto Gaspara Stampa; dall’altro, in genere, i toscani, compreso lo stesso Michelangelo, nonché Vittoria Colonna, il Bronzino, Annibal Caro e quindi Ludovico Castelvetro, suo storico rivale, e Benedetto Varchi, l’immancabile. In mezzo, forse, Laura Battiferra…
Va forse escluso Tiziano, perché di là dalle apparenze Tiziano ritorna in qualche modo alla spazialità centralizzata. Invece, è tutto da riscoprire il Sodoma, sia veneziano che terlizzese. Della Madonna con Bambino e Sante di Bari del Veronese l’ombreggiatura dei volti è in diretta correlazione con l’avvitarsi dei corpi…
Nicola Troiani